Pagine

venerdì 25 maggio 2018

THE SUMMIT K2

IL DOCUMENTARIO SUL DISASTRO DEL K2

No, questa settimana niente escursione, niente umorismo ed esagerazione comica. Ogni tanto anche qui su questo blog è tempo di serietà, di storie tristi. Oggi è quel tempo. Oggi è tempo di parlare di The Summit K2, il documentario sul disastro del K2 del 2008.

Fonte: 4actionsport

Il K2, cos’è davvero


Prima di parlare di The Summit K2, che a conti fatti è stato il primo documentario sulla montagna che ho mai visto, facciamo un po’ di chiarezza su questo signor K2. 

Se siete approdati su questo blog è supponibile che una star come il K2 la conosciate, o per lo meno lo abbiate già sentito nominare. Probabilmente saprete che è il secondo monte più alto del mondo con i suoi 8.609 metri e forse saprete che il gruppo montuoso dove si trova si chiama Karakorum e che è al confine tra Pakistan e Cina (più o meno, adesso non stiamo a cavillare troppo geograficamente con regioni e zone autonome).

Forse, però, non sapete che il nome K2 glielo ha dato il colonnello Thomas George Montgomerie nel 1856, quando prese parte (il colonnello non il K2) alla spedizione del geografo Henry Haversham Godwin-Austen per effettuare i primi rilevamenti. E vi siete mai chiesti perché proprio quel 2? Scommetto che credete sia perché è il secondo monte più alto del monte, vero?! Sbagliato! Il due stava per “seconda cima più alta del Karakorum. E sì: nel 1856 si erano sbagliati a misurare l’altezza dei vari monti e si erano convinti che fosse il Masherbrum la vetta più alta del Karakorum. Lo avete mai sentito nominare il Masherbrum? No? E sapete perché? Perché è molto, ma molto più basso del K2: non è neanche la terza o la quarta cima più alta del mondo. Insomma, avevano toppato di brutto. Ma appunto perché il K2 è la seconda cima sulla Terra il due è rimasto. 


Per amor di cronaca, però, va detto che non è mica l’unico nome che ha: lo potete chiamare anche Monte Godwin-Austen, Dapsang o ChogoRi, che in lingua balti significa grande montagna. E se per caso sentite parlare di una certa montagna degli italiani sappiate che parlano sempre di lui perché i primi a conquistare questo colosso indomito furono proprio gli italiani il 31 luglio 1954 nelle figure di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli grazie a un’impresa incredibile di Walter Bonatti, che nella notte precedente alla conquista fu costretto a bivaccare a 8000 metri d’altezza dopo aver portato a quell’altitudine le bombole d’ossigeno necessarie per il tentativo di vetta (fatto che avrebbe poi generato la grande oscenità alpinistica che è passata alla storia come il caso K2).

Il nome che, però, spiega perché ho fatto tutta questa diserzione sul K2 è “la Montagna Selvaggia”. È chiamato così per la sua difficoltà alpinistica e per la sua mortalità: infatti il rapporto tra vittime e alpinisti che hanno conquistato la vetta è di 1 su 4 e tra gli ottomila ha il terzo tasso più alto di mortalità di scalata dopo l’Annapurna e il Nanga Parbat. Questo perché i suoi versanti sono estremamente ripidi, c’è una presenza costante di tratti di arrampicata e di passaggi alpinistici veramente impegnativi e pericolosi ed è quasi totalmente assente di posti adatti ad un campo.

Insomma il K2 sarà anche la seconda vetta al mondo, ma in fatto di ostilità all’uomo è la prima in assoluto. Un evento come quello raccontato in Ascension, un inesperto che arriva in vetta senza troppe difficoltà, sul K2 non capiterebbe mai. Andare sul K2, invece, è una sfida costante che sposta vertiginosamente l’asticella del rischio di morire. Non per niente la montagna degli italiani è rimasta l’unico ottomila a non essere stato conquistato di inverno. Un motivo ci sarà no?! Neppure Denis Urubko, uno dei migliori alpinisti in vita, è riuscito a conquistarlo questo inverno.

Il K2. Fonte: Wikimedia

Il disastro del K2 


Ora che vi ho spiegato perché le morti sono quasi all’ordine del giorno sul ChogoRi torniamo a noi: cos’è questo disastro del K2? Ovviamente è una tragedia. Una di quelle che quando vai in montagna, in un angoletto remoto della tua mente, sai che potrebbe succedere, ma così, di queste dimensioni, credi che non accada… non a te per lo meno. 

Era il 1 agosto 2008. Se ci penso io non lo so cosa stavo facendo quel giorno. 25 persone di 8 nazionalità diverse, invece, stavano tentando la vetta della Montagna Selvaggia in uno dei pochi giorni sereni da settimane. Quella mattina, alle 3 quando partirono da campo 4, tutti erano pronti a giurare che quello fosse il giorno perfetto. Si sbagliavano.

Per prima cosa erano in troppi a tentare la salita. Ne abbiamo già parlato con il film Everest: la fila su un ottomila può essere letale. Inoltre le corde fisse erano state montate male. Per questo procedevano lentamente. Tanto lentamente che arrivarono quasi tutti in vetta troppo tardi, unica eccezione lo spagnolo Alberto Zerain che raggiunse la cima in stile alpino alle 15 e in serata era già al campo 3. I norvegesi, invece, arrivarono alle 17.20, i coreani alle 17.30 e gli olandesi e Marco Confortola, unico italiano, arrivarono per le 18.30/19.30 (secondo alcuni addirittura alle 20).

Insomma quando scese la sera c’erano ancora 18 alpinisti in vetta. 18 perché due erano già morti. Il primo è stato il serbo Dren Mandic a causa di un errore fatale: tentare di superare un compagno senza essere assicurato. Così, vicino al collo di bottiglia, scivola e precipita. Il secondo è il suo portatore, di cui mi spiace non sapere il nome, che precipita a sua volta nel tentativo di riportare il corpo di Mandic a campo 4.

Alle 20.30 è invece il turno del norvegese Rolf Bae, che non aveva raggiunto la cima, e poco dopo del francese Hugues d’Aubarede. Il primo portato via dal distacco di una parte del seracco che insiste sul collo di bottiglia (forse il punto più pericoloso del K2 con il suo seracco alto 100 metri), il secondo precipitato poco dopo il traverso per colpa della stanchezza.

Le vittime a questo punto sono 4. Prima che la vicenda si concluda saliranno a 11. La notte ormai ha colto gli alpinisti in pieno tentativo di discesa. Alcuni decidono di proseguire nonostante tutto, qualcuno (Confortola, l’irlandese McDonnel e l’olandese van Rooijen) decidono di bivaccare aspettando l’alba. Alle 6, con un principio di cecità in corso, van Rooijen parte da solo verso il campo 4. Poco dopo partono anche McDonnel e Confortola che però si fermano a soccorrere due coreani e il portatore nepalese Jumic Bhote che, nel tentativo di discesa notturna, sono scivolati e rimasti appesi a testa in giù ad alcune corde fisse. McDonnel morirà proprio per essere risalito oltre il traverso per tagliare le corde per liberarli. O almeno così sembra: le versioni della storia da qui in poi sono discordanti e contraddittorie.

Sono ormai le 15 del 2 agosto. McDonnel, che otterrà postumo il premio Best of ExplorersWeb 2008 per il suo "incredibile coraggio", è già morto, Confortola, dopo aver chiamato aiuto, abbandona i tre e si incammina verso campo 4. È esausto e alla fine crolla addormentato. Van Rooijen, invece, è perso lungo la via Cesen a causa della parziale cecità. Sarà il portatore Pemba Gaylje a soccorrerli entrambi, mentre non c’è nulla da fare per salvare i coreani, il loro portatore e i due portatori che sono tornati lassù per salvarli: una valanga li travolge e li spazza via. L’unico del gruppo che riesce a sopravvivere è Tsering Bhote e poco più avanti anche Confortola sopravvive alla valanga grazie all’intervento, ancora una volta, di Pemba Gyalije che gli fa da scudo con il suo corpo. Ed è proprio Gyalije il vero eroe di questa tragedia se uno ne vogliamo trovare. O per lo meno è l’eroe che sopravvive. Perché salva chi può salvare in barba ai rischi che corre lui in prima persona; perché ogni salvataggio in alta montagna è anche possibilità di morte. Per questo si dice che quando si è lassù, soprattutto nella zona dalla morte, in realtà si è da soli.



Summit K2, il film


Questa è la triste storia del disastro del K2. Toglie il fiato, e The summit la racconta come un pugno nello stomaco. Tra immagini suggestive e reali si dipanano le tappe essenziali di questa condanna alla distruzione. L’80% del documentario, infatti, è composto da immagini vere, azioni vere, volti veri: solo il 20% del film, infatti, è ricostruito usando come location le Alpi svizzere a oltre 3700 metri

E mentre stai lì a guardare quei ricordi in movimento ti rendi conto che stai guardando qualcosa che è già finito, una storia che non puoi cambiare, come la luce delle stelle. Ti raggiunge in ritardo di anni e tu, che sai cosa succederà, non puoi fare niente. Puoi solo guardare sapendo che è tutto vero ciò che vedi, che quelle persone sono vere. Li vedi muoversi, parlare e poi cadere. E quando cadono tu sai che non si rialzeranno.

E a fine film ti resta un dubbio: ma perché hanno scelto quel che hanno scelto? Ma il dubbio reale è uno solo: “avrei fatto la sua stessa scelta senza il senno di poi?”. E la risposta, al 90% delle volte è, sì.

Ed è forse questo il vero trionfo di The summit: rendere chiaro che nella zona della morte il cervello si impiglia nella neve e fallisce in ogni scelta. E non è proprio possibile giudicare quello che è stato, le scelte fatte. Non è possibile stilare una lista dei buoni e dei cattivi, di chi ha fatto bene e di chi ha fatto male. Si può solo tacere e ricordare.


Fonte: Adventure Pakistan


Scheda del film:


Sceneggiatore: Mark Monroe
Regista: Nick Rayan
Produttore: Image Now Films Fantastic Films Passion Pictures Diamond Docs
Durata: 95 minuti
Anno di uscita: 2012

venerdì 18 maggio 2018

L'ESCURSIONE AL RIFUGIO CONTRIN

LA VOLTA DELLA MIGLIORE CHEESECAKE DEL TRENTINO (ANCORA ME LA SOGNO)

Non può sempre succedere qualcosa; questo è un dato di fatto. La maggior parte delle giornate sono monotonamente comuni e senza particolari aneddoti e a volte capita anche alle escursioni. Ed è quello che è successo durante l’escursione al Rifugio Contrin in Val di Fassa: non è successo niente di speciale. Per cui per questo articolo potevo scegliere di introdurre in modo machiavellico e un po’ traballante aneddoti buffi che non c’entravano niente (tipo la volta che non sono scesa al capolinea e ho scoperto con mio profondo terrore dove vanno a morire in solitudine i binari della metro) o potevo essere modica. E siccome, per motivi oscuri ed arcani, non ho trovato un buon modo di parlare della metropolitana romana in un pezzo che racconta le Dolomiti e il trekking in Trentino ho scelto, in completa libertà, di essere modica. Vediamo se ci riesco.

Vista del Sassolungo dal Rifugio Baita Locia Contrin

Da Alba al Rifugio Baita Locia Contrin


Per iniziare questo trekking in Val di Fassa bisogna, prima di tutto, essere in Val di Fassa, appunto; ad Alba di Canazei (1517m) per la precisione. Alba, come forse il nome completo ha già fatto intuire, è una frazione di Canazei, la prima venendo da Campitello dove noi alloggiavamo quell’estate per via della migliore pasticceria dell’universo. Se non vi ricordate più di cosa parlo vuol dire che non avete prestato abbastanza attenzione quando vi ho raccontato dell’escursione sul Sassopiatto e della ferrata del Col Rodella. Andate a ripassare che purtroppo questo pezzo non è luogo per parlare di sacher, krapfen e foreste nere.

Come ci arrivammo noi ad Alba non lo ricordo. Sono abbastanza sicura di poter escludere il teletrasporto, non altrettanto sicura per l’esclusione della proiezione astrale. Prendiamo per buono, però, che ci siamo arrivati coscienza, corpo e tutto quanto (ché così è più facile) e proseguiamo da qua.

Poco sotto i cavi della funivia Ciampac, che potrebbe portarvi in tanti bei posti ma non al Rifugio Contrin – perciò per il momento non prendetela, si dipana una strada nel bosco accessibile anche alle macchine. Non importa cosa penserete di lei guardandola da lontano: sappiate che già dopo i primi due passi la odierete e sognerete di farvi caricare in autostop dal primo che passa neanche foste Kerouc. Questa malefica stradina, infatti, si sviluppa in una continua serpentina tanto pendente che in alcuni tornanti sono state costruite delle specie di griglie per migliorare la presa degli pneumatici delle povere macchine che passano di lì.
Dopo circa mezzora, che comunque sembra una vita per colpa della fatica per affrontare questa salita del sentiero 602, si raggiunge il primo rifugio: il Rifugio Baita Locia Contrin (1736m), dove la Malefica si è immediatamente apparecchiata con il tablet che all’epoca usava come cellulare e ha dato vita ad un’intensa call sui massimi sistemi delle ricerche psicologiche, o delle tesi di laurea, o di quella particolare tesi, che poi era anche una ricerca, o di qualsiasi altra questione teologico-politico-morale che vi venga in mente. Insomma non stavo ascoltando quel che diceva. Però gesticolava in modo piuttosto convincente mentre noi bevevamo succhi e perdevamo tempo (io in particolar modo saltellavo a destra e manca a disturbare gli altri per fare video). Tirate le vostre somme su questi piccoli contrasti…

Per inciso, gira voce che ci sarebbe, in casi specifici e a pagamento, la navetta che porta al Rifigio Baita Locia Contrin. Una bella opportunità (che io ovviamente non ho sfruttato) se non volete arrivare alla baita con la lingua penzoloni.

Sentiero 602 in quota nella Valle del Contrin

Dal Rifugio Baita Locia Contrin al Rifugio Contrin


Una volta che la Malefica ha finito di salvare il mondo ci siamo riavviati per raggiungere la nostra reale meta: il Rifugio Contrin. E, per quanto il tratto da fare sia ancora piuttosto lungo, per lo meno si può trionfare del fatto che sia per lo più un sentiero pianeggiate lungo il fiume. Insomma è una passeggiata che piace a tutti e soprattutto tranquilla. Passa tra i pascoli e non è raro vederci cavalli o mucche. Noi li abbiamo incontrati entrambi, ma i cavalli erano piuttosto stanchi e fissavano il muro. Sembra stessero dormendo… Shhhh! Buonanotte.

Dopo un piccolo ponticello si raggiunge alla fine la Baita Cianci (1828m), seconda del nostro trittico di rifugi con la C. Ed è sui prati a fianco della baita che abbiamo mangiato il nostro pranzo al sacco prima di ripartire. Un pranzo incoronato da meravigliose vette: il Collac sulla destra, il torrione della Cima di Ombretta ad est, il Vernel e la Marmolada senza il suo ghiacciaio a sinistra.

Dopo la Baita Cianci si ricomincia la vera salita per arrivare, dopo aver attraversato il fiume, al Rifugio Contrin (2016m) dove abbiamo mangiato un’ottima cheesecake, o così giurava l’appunto che avevo preso, dato che, nonostante quello che dice il sottotitolo, l’ho dimenticata. Me ne vergogno, ma è anche vero che ho scritto metà di questo pezzo in dormiveglia (davvero!) quindi scegliete, non potete avere tutte le mie capacità intellettive: o la memoria, a breve o a lungo termine che sia, o la scrittura mentre dormo di testi di opinabile senso… Non pensate anche voi che madre natura mi abbia giocato un tiro basso?

Comunque, parlando d’altro, intorno al rifugio ci sono una chiesetta e qualche monumento che è carino vedere e, se ci si spinge un po’ più in là, c’è la Malga Contrin dove parrebbe ci siano tanti formaggi. Noi non ci siamo andati però perché… beh, perché bleah i formaggi!

Il Rifugio Contrin con all'orizzonte la Marmolada

Il ritorno dal Rifugio Contrin ad Alba


Il ritorno è per la stessa strada dell’andata e non è successo un granché neanche tornando indietro. A parte che è stata una faticaccia, perché la discesa è cattiva almeno quanto la salita, e che a questo punto si è rivelata tutta la mia natura dinoccolata che manco Celentano.

Quindi niente, tutto qui il Contrin. L’avevo detto: sono stata moderata nel raccontare questa bell’escursione in Val di Fassa tra boschi di larici e pascoli. Ma se avete la pazienza di affrontare le salite e le discese ve la consiglio veramente! 

Cime rocciose viste dalla Valle del Contrin

Scheda dell’escursione:


Partenza: Alba di Canazei (a piedi)
Arrivo: Alba di Canazei (a piedi)
Difficoltà: E
Durata: 3 ore circa
Dislivello: 508m
Sentieri: 602
Rifugi: Rifugio Baita Locia Contrin, Rifugio Baita Cianci, Rifugio Contrin

Tutte le foto sono del Signor Coso e del Dottor Uka (e grazie mille al Signor Coso per averle scelte!)

venerdì 11 maggio 2018

L'ESCURSIONE PER IL SENTIERO DEI TEDESCHI

LA VOLTA CHE CI SIAMO SCORDATI L’ACQUA… OPS!

Mettiamo il caso che siate dalle parti della Val di Pejo e che abbiate voglia di fare una bella escursione lunga, ma che per non si sa quale folle motivo non vogliate andare sul Monte Vioz; ecco in quel caso potrebbe tornarvi perfetta l’escursione sul Sentiero dei tedeschi. Così, per beneficio di quel ipotetico voi futuro, meglio che vi racconti com’è questa meravigliosa escursione. 

La via del Sentiero dei tedeschi tra abeti, erba e rocce

La partenza da Pejo Fonti


A dire il vero l’ipotetico caso è capitato a delle persone in carne e ossa e quelle persone eravamo il Signor Coso e io. Era il nostro primo giorno in Val di Sole e, sebbene non volessimo fare da subito i pigri dandoci a sentieri troppo facili come il giro del Lago Covel, non ce la sentivamo di partire in quarta con percorsi come il giro dei laghi del Cevedale, che avremmo fatto qualche giorno dopo. Così pensammo che per riscaldarci un po’ e svegliarci dal nostro letargo un’escursione lunga ma tendenzialmente in quota come il Sentiero dei tedeschi potesse essere perfetta. Quello che non avevamo pensato, invece, era di partire con le borracce vuote. Avevamo deciso di riempirle alla fontanella di Cogolo vicino al parcheggio dove ci avrebbe recuperato il pullman, ma un improvviso black out celebrale collettivo (solo così me lo spiego) ce lo ha fatto dimenticare e ci ha fatto arrivare là dove non c’era più neanche una fonte prima di accorgercene.

Per cominciare l’escursione bisogna prendere la funivia da Pejo Fonti e arrivare al Rifugio Scoiattolo (2000m) dove si prende la seggiovia per Doss dei Cembri (2315m). Forse vi ricorderete di Doss dei Cembri dalla salita del Monte Vioz (oddio! Mi sono sentita un po’ Troy McLure nello scrivere questa frase) e infatti l’inizio dell’escursione è sulla stessa via: il sentiero n. 138 che sale abbastanza ripido di fronte alla seggiovia. Solo che dopo poco, a un bivio, invece di voltare a destra e procedere verso il Vioz si prende a sinistra il sentiero n. 139, anche più romanticamente detto il Sentiero dei tedeschi. Ed è a questo bivio che ci siamo accorti di avere entrambi gli zaini stranamente leggeri: grazie al cavolo avevamo un litro d’acqua in meno sulla schiena! Non ci siamo particolarmente allarmati però. Il Sentiero dei tedeschi è un sali e scendi tra vallate piene di rivoli, torrenti, fiumi e cascatelle. Volevate che non avremmo trovato una bella fonte d’acqua cristallina con cui riempire le borracce? Spoiler alert: no! Non l’abbiamo trovata. Nei giorni precedenti aveva piovuto e rivoli, torrenti, fiumi e cascatelle erano tutti pieni di fango e acqua marrone. Questo non lo avevamo previsto. 

Fiume sul Sentiero dei tedeschi

L’escursione sul Sentiero dei tedeschi


Il Sentiero dei tedeschi si chiama così perché è stato costruito durante la Prima Guerra Mondiale per scopi militari e anche se all’inizio questo non è subito visibile, lungo l’escursione la sua storia diventa evidente grazie ai suggestivi resti di fortificazioni dell’epoca. Quando ci siamo arrivati la nebbia fitta che ci aveva accolto all’inizio si era, per fortuna, diradata per permetterci di goderci a pieno la loro vista. Purtroppo, invece, non ci è andata altrettanto bene con aquile reali, camosci e stambecchi che dicono siano frequenti in zona, ma che noi non abbiamo visto neanche di striscio. Per non parlare del gipeto (da non confondere con Geppetto che è un’altra cosa) che bazzica comunque la zona, ma che è più raro e di cui noi, come da copione, non abbiamo intravisto neanche l’ombra.

Il sentiero è di per sé inconfondibile: taglia il massiccio in orizzontale e non presenta molte svolte così anche una persona priva di orientamento come me riesce a evitare di perdersi. Il che è molto comodo specie pensando che quando ci siamo stati noi non c’era nessun altro, letteralmente: eravamo soli soletti, cosa che ha rallegrato la mia parte più misantropa e ha invece inquietato il Signor Coso. In compenso, però, abbiamo incontrato un gruppo di pecore belle piazzate sul sentiero che non ci hanno certo potuto assistere nell’orientamento o nella mancanza totale di acqua, ma hanno potuto comunque costringerci ad abbandonare il sentiero e ad arrampicarci sul pendio erboso per non disturbarle. Peccato che io sono ovviamente scivolata e le ho spaventate tutte facendole scappare. E niente: io ci avevo provato a passare inosservata.

La mia scivolata appare piuttosto ridicola se si pensa che poco prima, sul sentiero, avevamo attraversato punti ben più complessi: dapprima l’attraversamento di una cascatella su gradini di legno e rocce scivolose al punto da rendere utile un cavo metallico, e poi un ponticello di legno in concomitanza di un’altra cascatella. Insomma sarebbe stato più normale scivolare su legno o roccia bagnati no?! Ma chi ha mai detto che sono normale? Certo non io!

Valle verde attraversata dal Sentiero dei tedeschi

Scavallata una selletta abbiamo finalmente cominciato a vedere il Lago Pian Palù, segno che eravamo ormai oltre il giro di boa. Dalla sella in poco tempo abbiamo raggiunto la Valle degli Orsi (dove però non ci sono orsi, tranquilli!) in cui la via si biforca. Si potrebbe continuare dritti verso ghiacciai e altre vie oppure, come abbiamo fatto noi, si scende per la Val Cadini per il sentiero n. 139B. In questa valle erbosa si percorre una discesa morbida lungo la sponda del Rio Cadini prendendo il sentiero n. 129. L’obiettivo è uno solo: arrivare al Lago Pian Palù nonostante l’erba alta e il boschetto in cui ci si trova a passare. Per questo, alla prima occasione, si inforca il sentiero n. 124, anche detto strada militare, che porta fino a Malga Giumella. Sacra Malga Giumella! Da quei pizzi, dopo circa 4 ore di cammino nella natura incontaminata e di allucinazioni e deliri da disidratazione, abbiamo trovato una fattoria ma soprattutto un fontanile! Finalmente si beveva!

Proseguendo lungo la strada militare si raggiunge il Lago Pian Palù ed è qui che bisogna fare una scelta: si potrebbe decidere di continuare sul sentiero 124 che fa il giro del lago oppure si potrebbe decidere che dopo ore e ore di camminata tutto ciò che si desidera è tornare a Pejo Fonti (soprattutto considerando che non ci sono mezzi pubblici che ti vengano a recuperare in zona e ti riportino in paese). Indovinate cosa abbiamo scelto noi? A essere onesti, però, c’è da dire che avevamo già deciso a priori che avremmo fatto il giro del Lago Pian Palù un altro giorno. Così ci trovavamo solo a dover decidere se tornare a Pejo Fonti per la via carrabile, una discesa nel complesso morbida, o attraversare la diga e affrontare una discesa ben più ripida. 

Cartello per la Valle degli orsi tra le nubi e l'erba

Il ritorno a Pejo Fonti dal Lago Pian Palù


Abbiamo deciso di attraversare la diga e di tenere la sinistra e scendere per la ripida scalinata di terriccio e legna fino al Rifugio Fontanino (1675m). Se cercate indicazioni chiare per trovare questa scalinata sulla mappa o dal vivo sappiate che è parte del sentiero n. 199. Se cercate invece un consiglio eccovelo: non bevete l’acqua del Fontanino! Non del rifugio, ma proprio l’acqua della fonte del Fontanino. Non importa se la targa dice che nell’ottocento/novecento (non ricordo il secolo) andava di moda e che fa molto bene: i nostri avi non avevano le papille gustative secondo me. Quell’acqua è terribile per quanto è ferrosa! Invece se avete sete bevete la birra: le bottigliette di mini Frost che si comprano al Rifugio Fontanino sono fantastiche.

Per tornare a Pejo Fonti dal Rifugio Fontanino abbiamo preso il sentiero n. 110 che si immerge nel bosco dall’altra parte del fiume. Stando alla mappa sarebbe dovuto essere un’ottima alternativa alla strada asfaltata e ci avrebbe dovuto portare in relativamente poco tempo in paese. E non è che la mappa mentisse proprio; diciamo che però aveva lievemente omesso che c’era una svolta. A un certo punto, per farla breve, avremmo dovuto attraversare un ponte sulla sinistra e quando ci siamo tornati la volta del giro del Lago Pian Palù ci siamo anche accorti che in effetti i segnavia per il ponte c’erano, ma la volta del Sentiero dei tedeschi, invece, non abbiamo visto né segnavia né ponte. Conclusione? Abbiamo preso a destra e siamo saliti per una terribile salita talmente pendente che quella del purgatorio di Dante in confronto è una barzelletta. Così facendo però abbiamo raggiunto il Forte Barba di Fiori (1610m) che ho trovato veramente carino anche se un po’ autoconclusivo (insomma non è che ci fosse poi molto da vedere). Da lì in poi abbiamo cominciato a riscendere e abbiamo raggiunto la strada asfaltata che, al prezzo di altro sangue, sudore e fatica, ci ha riportato a Pejo Fonte.

Insomma a parte le 4 ore senz’acqua e l’imprevista ora in più di cammino regalata dal Forte Barba di Fiori questo trekking in Val di Pejo è stato esattamente ciò che ci aspettavamo: una bella escursione faticosa ma fattibile. Peccato solo per quell’ultimo pezzo di strada asfaltata obbligatoria: il bitume rovina sempre un po’ tutte le escursioni. Ci fosse stato per lo meno un gipeto a farci compagnia… e invece niente. 

Vista del Lago Pian Palù tra nuvole basse dal Sentiero dei tedeschi

Scheda dell’escursione:


Partenza
: Pejo Fonti (in funivia)
Arrivo: Pejo Fonti (a piedi)
Difficoltà: E
Durata: 5 ore circa
Dislivello: 640m
Sentieri: 138, 139, 139B, 129, 124, 119, 110
Rifugi: Rifugio Scoiattolo, Rifugio Fontanino


Tutti le fotografie sono mie e del Signor Coso

venerdì 4 maggio 2018

LA SALITA AL MONTE PRENA

LA VOLTA CHE C’ERA LA NEVE A GIUGNO… OH CAVOLO! LA NEVE!

Vi rivelo un segreto: erano mesi che avevo voglia di parlare di questa escursione. E finalmente siamo giunti a lei: la salita al Monte Prena, montagna unica nel massiccio del Gran Sasso con il suo paesaggio lunare. Che se per caso un giorno vi svegliate e vi sentite Astolfo (quello dell’Orlando Furioso, per intenderci), ma non trovate in giro nessun carro di Elia, vi assicuro che andare sul Prena sarà un ottimo ripiego alla mancata luna (che poi, almeno, lì non correte neanche il rischio di inciampare sul senno di qualcun altro. E non è poco). 

Vista del Monte Prena durante la salita dalla via normale

L’avvicinamento al Monte Prena


Il Monte Prena è stato un sacco di prime volte. È stata la prima escursione di Wini con noi. È stata la prima volta che ho capito che non serve per forza andare sulle Dolomiti per incontrare un paesaggio dolomitico. È stata la prima volta che ho trovato la neve sulla mia strada. Ed è stata anche la prima volta che ho creduto che la mia fortuna metereologica avesse fatto cilecca. Ebbene sì: ho una fortuna sfacciata con il tempo. Non mi piove mai addosso quando sono in montagna. E neanche sul Prena è successo, ma questo non ha escluso comunque il vento gelido e il freddo birichino. Ma andiamo per ordine.

Il Prena, per chi non lo sapesse, è il gemello buono del Monte Camicia. O per meglio dire non si assomigliano per niente, ma stanno là, uno accanto all’altro, quindi diciamo che sono gemelli. Che poi se volessimo essere precisi più che altro sono trigemini (tipo i Pantano dei Una serie di sfortunati eventi. Se non sapete di cosa parlo shame on you!) perché ci sarebbe di mezzo anche il Monte Brancastello, ma lasciamo perdere questa questione che se no ci incartiamo e non andiamo avanti.

Visto che stanno uno accanto all’altro va da sé che la via per il Monte Prena è la stessa che porta al Camicia. Solo che una volta superato Campo Imperatore per raggiungere il Monte Camicia si deve arrivare alla località Fonte Vetica. Per il Prena, invece, ci si ferma circa 300 metri prima, all’altezza di una stradina sterrata sulla sinistra che, almeno che non abbiate un fuoristrada, è impercorribile in macchina, tanto è sassosa e dissestata. Quindi gioco forza si parcheggia qui. 

La conca verdeggiante prima del Vado di Ferruccio nella salita al Monte Prena sulla via normale


La salita al Monte Prena


La strada sterrata è proprio l’inizio di questa escursione che fin da subito ci ha fatto capire che non sarebbe andata come ci aspettavamo. Appena scesi dalle macchine già battevamo quasi i denti. Ed era giugno eh! Mica eravamo in pieno inverno. Ma si da il caso che questo non significasse niente per il Prena: giugno o non giugno lui sarebbe stato comunque innevato. E a dire il vero questa non è neanche una grande novità per la mia famiglia: siamo specializzati nel trovare neve nei periodi dell’anno sbagliati. I miei si sono sposati il primo giorno di primavera. Hanno montato le catene alle macchine prima di andare in chiesa: nevicava da morire! Quindi insomma era destino che prima o poi sarebbe capitato anche a me qualcosa del genere ed ecco fatto.

Dopo una mezzora circa di camminata sul sentiero sassoso ancora non sentivo caldo ed era ormai chiaro che eravamo tutti vestiti troppo leggeri per sperare di stare bene quel giorno. A quel punto, comunque, rassegnati abbiamo svoltato a destra e, a una deviazione ben segnata, abbiamo cominciato a salire dritti per dritti tra il Prena e il Camicia ignorando, per altro, che se avessimo continuato sul sentiero precedente saremmo giunti alle miniere di bitume finite di costruire nel 1944 e mai entrate in funzione (sapete com’è: c’era la guerra…). Ora, che cosa sia il bitume io l’ho appena scoperto, perché per 27 anni della mia vita sono stata convinta che fosse un sinonimo di letame (ma miniere di letame non si può sentire!) e invece è una miscela di idrocarburi naturali o residuati derivanti dalla distillazione o raffinazione del greggio. Che poi tutti sti paroloni significano asfalto: il bitume è l’asfalto…

Dopo la breve salita di qualche metro dritti per dritti ha inizio nei prati un sali e scendi continuo non troppo pendente che porta, in relativamente poco tempo, a una vallata verde. Ed è qui che abbiamo trovato la neve e che io ho cominciato a temere che avrei perso per sempre Wini. E poi come lo spiegavo a casa? Perché la neve era in uno scivoloso canaletto che dovevamo per forza attraversare. E mentre io mi preoccupavo per Wini, nel canaletto ci stava quasi per scivolare il Signor Coso. O per lo meno così afferma lui: io non ci ho neanche fatto caso. Povero Signor Coso! 

La salita del Monte Prena per la via normale con sullo sfondo due guglie rocciose con incastrato in mezzo un grande masso ovale

Superato questo piccolo canalone, però, si arriva a un tratto pianeggiante che ci ha dato modo di distendere i nervi. Sì, la neve era anche lì ma più rada e non era uno scivolo da montagne russe, quindi nel complesso era gestibile. Per altro questo tratto deve essere particolarmente suggestivo visto nel pieno dell’estate perché è costellato di ruscelletti e cascatine veramente belle da vedere. Però ovviamente la “pianura” non può durare. Aggirata la conca a destra, infatti, all’altezza del Vado di Ferruccio (2242m), da cui si potrebbe fuggire verso il malefico Camicia, abbiamo cominciato di nuovo la salita vera e propria verso la vetta del Prena dal lato tirrenico. Questo perché, dall’altro lato, è si possibile arrivare in vetta, ma attraverso dei sentieri attrezzati e noi, invece, stavamo percorrendo la via normale.

Da qui raggiungere la nostra meta era facile. Non perché questa escursione sia leggera, anzi – è decisamente dura e riservata a chi ha buona resistenza fisica – ma perché a segnare il cammino davanti a noi c’era un punto di riferimento inconfondibile: due guglie rocciose con incastrato in mezzo a loro un bel masso piuttosto rotondo. Secondo me è la prova che a un certo punto Sisifo si è rotto le scatole e ha dato forfait proprio lì sul Prena. Che sia così o meno, comunque, questa curiosa scultura naturale è stata la nostra stella polare: dovevamo solo proseguire in salita dritti per dritti verso di lei. Almeno finché non abbiamo raggiunto un secondo e ben più pendente e pericoloso canalone pieno come una pignatta di neve. Ed è qui che abbiamo rischiato di perdere Wini. Per fortuna i miei bastoni da nordic walking le hanno offerto una salvifica stabilità che altrimenti non avrebbe avuto. In compenso io, vedendola scivolare, ho perso almeno dieci anni di vita. Secondo me è per questo che adesso ho ben tre capelli bianchi!

Comunque, superato quest’ultimo canalone la salita si fa ancora più interessante perché da qui in poi è solo rocce brulle. Questo perché in realtà si sta procedendo a ridosso della parete. Dopo pochi minuti infatti si arriva sullo stretto filo di cresta da cui, a 20 metri circa, si staglia la piccola vetta (2561m) dove riesce a starci quasi solo la croce. E se per caso state conquistando il Monte Prena in una giornata particolarmente ventosa (il nostro ventaccio freddo si credeva la Bora, per esempio) fate attenzione a quando scavallate per arrivare in cresta: il vento può sorprendervi per la sua forza e può farvi facilmente perdere l’equilibrio.

La discesa dalla vetta del Monte Prena tra le rocce bianche e la nebbia

Il ritorno dalla vetta del Monte Prena


Ho sentito dire che dalla vetta del Monte Prena si goda di una vista meravigliosa. Purtroppo io non posso confermarlo perché durante tutta l’escursione siamo stati completamente immersi in una fitta nebbia lattiginosa che non ci ha fatto vedere niente. E se a questo aggiungiamo il fatto che stavamo morendo di freddo capirete facilmente perché siamo stati sì e no in vetta uno o due minuti e poi abbiamo ricominciato la discesa.

Per tornare ai piedi del monte la strada di discesa è la stessa di salita. Bella ma impegnativa quindi, e non certo da fare di corsa, anche se io a un certo punto sentivo talmente freddo che avrei volentieri preso la scorciatoia che offriva il canalone che qualche minuto prima aveva provato a portarsi via Wini. Se solo quella scorciatoia non fosse stata letale… Chi ha invece rischiato di prenderla davvero è stato purtroppo un nostro amico, uno dei più esperti della compagnia, a cui ha ceduto sotto al piede una roccia mentre strisciavamo lungo la parete per evitare di finire nel canalone. E lì davvero ci siamo spaventati tutti molto. Per fortuna però è riuscito a evitare di cadere e si è solo ferito un po’ la mano. Un mezzo miracolo! A riprova che la montagna è pericolosa sempre: non importa se stai a 2000 metri o a 8000 e neppure da quanto tempo fai alpinismo.

A parte questo imprevisto, comunque, alla fine è andato tutto bene e non abbiamo più avuto incidenti o incontrato difficoltà particolari. Quando siamo arrivati alle macchine, però, eravamo veramente sfiniti. Il freddo ci aveva irrigidito i muscoli rendendo peggiore e più faticoso ogni movimento e a me aveva fatto venire una contrattura al quadricipite che ci avrebbe messo giorni a passare. E per fortuna che se ne andò giusto il giorno prima della Ferrata degli Artisti che feci la settimana dopo. Se me l’avesse rovinata non sono sicura che adesso avrei amato così tanto il Prena. Perché sì, lo ammetto: il Monte Prena è il mio preferito sull’Appennino e ho deciso che ci devo assolutamente tornare, sta volta senza neve. D’altro canto la prima volta non ho visto né camosci né genziane né stelle alpine, che dicono invece brulichino lassù, e non siamo neanche andati a mangiarci gli arrosticini per quanto eravamo stanchi. Ah gli arrosticini! Perché li ho nominati? Adesso mi è venuta fame. A voi no? 

Vista delle rocce del Monte Prena tra la nebbia


Scheda dell’escursione:


Partenza: Ai piedi del Monte Prena (tramite sentiero)
Arrivo: Ai piedi del Monte Prena (tramite sentiero)
Difficoltà: E
Durata: 6 ore circa
Dislivello: 850m

Le foto sono mie e del Signor Coso