venerdì 29 dicembre 2017

SATTEL-HOCHSTUCKLI

LA VOLTA CHE LE MUCCHE CI HANNO RUBATO LA CIMA

Mi è capitato, una volta, di fare un’escursione su di una montagna che più che altro è un parco giochi. E non è un modo di dire: una parte del Sattel-Hochstukli, in Svizzera, è letteralmente un parco giochi per bambini.


Vista sulla vallata dalla vetta del Sattel-Hochstuckli

L’arrivo a Sattel-Hochstuckli


Grazie a una meravigliosa cugina dalla generosità e ospitalità infinita (grazie! grazie! grazie!) ci è capitato di passare 4/5 giorni in Svizzera. E visto che è la patria di meravigliose cime alpine oltre che di signorini quali il Monte Pilatus (che fa la sua scena sopra Lucerna) e la Rigi (che è chiamata “la regina delle montagne”), il Signor Coso e io avevamo progettato di accamparci nel verde elvetico e non riportare mai più il naso in città.

Ne eravamo talmente convinti che ci eravamo portati dietro l’attrezzatura da ferrata. I giorni in Svizzera, però, seguivano quelli nella val di Pejo in cui, tra l’altro, avevamo conquistato il Vioz, percorso il giro dei laghi del Cevedale e marciato fino quasi a perderci sul Sentiero dei tedeschi. Eravamo perciò piuttosto sfiniti quando siamo arrivati a Zurigo. E questo spiega chiaramente perché l’attrezzatura da ferrata è rimasta tutto il tempo ben impacchettata in valigia.

Non potevamo, però, andare oltralpe e non fare neanche una capatina su un monte e non ce la sentivamo di contare come valido il giro sull’Uetilberg, il monte di Zurigo. Così la nostra scelta è ricaduta sull’andare a fare trekking sulle Prealpi Svittesi, in particolare sul Sattel-Hochstuckli.
Una mattina abbiamo preparato gli zaini, ci siamo impacchettati nella nostra tenuta escursionistica, e siamo partiti.

Il più grande pregio del Sattel-Hochstuckli è quello di avere un parcheggio compreso nel prezzo della funivia, che però costa un occhio della testa: 22 franchi ciascuno. E visto che in Svizzera costa tutto tanto, ma niente costa quanto un parcheggio (sembra che avere una macchina sia un peccato capitale) in quei giorni io avevo la sensazione di pagare anche l’aria che respiravo. Quindi di improvviso la funivia del Sattel era diventata la realtà più generosa e amorevole che avessi mai incontrato. Avevo gli occhi a cuoricino quando abbiamo parcheggiato lì, giuro!


I prati e i panorami del Sattel-Hochstuckli durante la salita alla vetta

L’escursione sul Sattel-Hochstuckli


Il vero difetto del Sattel-Hochstuckli, oltre allo spelling del suo nome che mi fa sudare quattro camicie ogni volta che lo scrivo, è quello che doveva essere (e forse per qualcuno lo è) il suo più grande pregio: la Stuckli Rondo, la prima teleferica girevole creata al mondo. Ebbene sì: la cabina della funivia gira! Gira signori! Quindi se per caso dovete allacciarvi le scarpe, come è capitato al Signor Coso, non fatelo, ripeto, non fatelo su quella diabolica funivia. Almeno che non vogliate liberarvi della colazione, ovviamente, in quel caso fatelo pure senza problemi.

La Stuckli Rondo, che parte da Sattel (800mt), arriva in località Mostelberg (1200mt) dove mi sono trovata di fronte una scena decisamente inaspettata. La mia idea di montagna è un ambiente vergine, più o meno incontaminato. Alla fine di quella funivia, invece, c’è letteralmente un parco giochi per bambini fatto di trampolino, castello gonfiabile (lo Stuckli Jump) e slittini estivi con tunnel e paraboliche (lo Stuckli Run). Tutto certamente delizioso per i bambini, ma vagamente osceno per me. Ma va beh!

Appena abbandonato la funivia abbiamo preso il sentiero 2 o giallo e ci siamo trovati rapidamente dinnanzi al ponte pedonale più lungo d’Europa, il Raiffeisen Skywalk, che si estende per 374 metri a 58 metri di altezza. Ma la vera bellezza di questo piccolo capolavoro di ingegneria è che è perfettamente accessibile alle sedie a rotella e ai passeggini, fatto per niente scontato in montagna.

Terminato il ponte abbiamo continuato sul sentiero giallo fino ad incrociare il sentiero 4 o azzurro. Qui abbiamo voltato a sinistra incominciando a salire in un via vai di recinti di mucche, boschi e fattorie. Era così comune passare accanto a case e stalle che quasi mi sembrava di essere tornata sull’Appennino Tosco-emiliano dove mio nonno abitava e portava le pecore a pascolare.

A un certo punto, mentre dribblavamo una chiazza di fango, attraversavamo delle sabbie mobili di fango e finivamo dritto per dritto in una zolla tettonica di puro fango, ho deciso che se anche l’ambiente mi ricordava l’Appennino il clima era certamente da Prealpi. Così ho costretto il Signor Coso a fermarsi vicino a una fattoria per farmi rimettere la parte inferiore dei pantaloni (in montagna vado in giro con dei pantaloni lunghi che all’occorrenza possono diventare corti e viceversa). La fattoria, però, era di proprietà di un cane che non gradiva affatto la nostra presenza, a giudicare da quanto abbaiava, e di un signore che ci è venuto incontro motosega alla mano. Avete presente “Non aprite quella porta”? Ecco! L’effetto è stato più o meno quello. E io già cercavo nella mia testa le giuste parole in inglese per dire “Ti prego non uccidermi e non darmi in pasto al tuo cane! Prendi il Signor Coso piuttosto” (che persona carina che sono!) quando il signor Motosega se ne è uscito con un gioviale “guten morgen!” accompagnato da un bel sorriso. Gli svizzeri sono bella gente, a quanto pare.

Superato il panico da motosega abbiamo ripreso la via per la vetta che in pochi minuti sarebbe stata raggiungibile se non fosse stato per le mucche. Ebbene sì: le mucche ci hanno prima ostacolato la via, costringendoci a procedere per un pantano fuori sentiero, e poi ci hanno tolto il gusto di toccare precisamente la vetta (1600mt) perché avevano completamente accerchiato la croce. E niente, le abbiamo lasciate vincere. Con le mucche non si ragiona bene.


Il Raiffeisen Skywalk del Sattel-Hochstuckli, il ponte pedonale più lungo d'Europa

Il ritorno dalla vetta del Sattel-Hochstuckli


Il ritorno verso la funivia si fa attraverso la seconda metà dell’anello del sentiero azzurro, una strada ampia e aperta costellata anche di un paio di grosse croci di legno.

Tornando indietro ci siamo fermati a mangiare nell’unico rifugio trovato aperto sul Sattel-Hochstuckli. Un piccolo problema era che la proprietaria, nonché unica cameriera, parlava solo tedesco e noi due invece non parliamo tedesco. O meglio, il Signor Coso un po’ di tedesco lo parla, abbastanza da riuscire a dire la frase più importante in assoluto per me ossia “senza formaggio”, “ohne käse”, ma non sufficientemente da capire tutti i discorsi che la signora ci ha sciorinato addosso quando si è accorta che lui qualcosa lo sapeva dire.

Informazione importante se andate a mangiare in Svizzera: se c’è scritto cheeseburger con bacon non aspettatevi verdure, pomodori o patate, sarà letteralmente formaggio, hamburger e bacon e nulla più.

Tornati al parcheggio, comunque, se lo volete sapere, non siamo ripartiti subito. Siamo rimasti ad aspettare l’orario giusto per tornare al nostro parcheggio pubblico a Zurigo: perché oltre a costare un patrimonio questi parcheggi elvetici sono anche rigidissimi con i tempi. Si può stare per un massimo di due ore. Insomma è una vita difficile quella dell’automobilista in Svizzera!


Sentiero e scalette in mezzo al bosco per raggiungere la vetta del Sattel-Hochstuckli

Scheda dell’escursione:


Partenza: Sattel (funivia)
Arrivo: Sattel (funivia)
Difficoltà: E
Durata: 3 ore circa
Dislivello: 400mt
Sentieri: 2 (giallo), 4 (azzurro)


Tutte le fotografie sono mie e del Signor Coso

venerdì 22 dicembre 2017

L'ALTOPIANO DEL PUEZ

LA PRIMA VOLTA CHE ABBIAMO INCONTRATO BABBO NATALE
Oggi mi sento Dickens, d’altro canto siamo a un passo dal Natale. Però, invece, di parlare di un vecchio brontolone e dei suoi tre fantasmi voglio raccontarvi di quando tornavo dall’altopiano del Puez e ho incontrato, per la prima volta, Babbo Natale.


La vista del Puez dal Passo Cir

La partenza da Passo Gardena


Quando abbiamo deciso di fare trekking nel Parco Naturale del Puez-Odle pioveva tanto che non si vedeva molto dai finestrini dell’autobus da Colfosco a Passo Gardena. Non che fosse un temporale, più una pioggerella insistente e fitta, ma era comunque sorprendente che ci fossero tanti escursionisti su quell’autobus. La spiegazione ovvia e, in effetti, vera è che tutta quella gente era insieme in un unico gruppo. Un gruppone che appena scesi dall’autobus si è avviato con me e il Signor Coso verso il Puez.

Dato che non sembrava voler smettere di piovere avevo deciso di bardarmi con senno per affrontare la pioggia (ma non l’escursione sotto la pioggia). Avevo addosso, in quest’ordine: una maglietta a maniche corte, un pile e un k way assassino che funzionava come sauna portatile e mi faceva sentire come uno di quei cosciotti di pollo che mia madre cucinava nel forno a microonde fino all’anno scorso. Non eravamo neanche arrivati al Rifugio Jimmy che già mi ero liberata del k way: alla faccia della pioggia!

Dal rifugio, che per un’esperienza precedente sul Piccolo Cir e sul Grande Cir posso assicurare non essere male, prendendo a destra siamo risaliti lungo il crinale. È più o meno qui che ho deciso di ignorare bellamente il gruppone di prima e togliermi sia il pile che la t-shirt per mettermi una canottiera. E questo era solo l’inizio della mia lunga saga “vestiti-svestiti”.

Seguendo il sentiero 2 abbiamo scavallato il Passo Cir e a quel punto… no, non abbiamo incontrato Babbo Natale. Lasciamo da parte Dickens per un po’, ché ho capito che è Natale, ma a me sta anche antipatico Charles. Parliamo di un altro autore. Avete presente J.R.R. Tolkien? E il suo libro più famoso? E quel filmetto che è stato tratto da quel libretto? Insomma avete presente Il Signore degli anelli? In particolare la scena in cui Sam e Frodo guardano verso Mordor alla fine della Compagnia dell’anello? Ecco in quel momento io ero Sam (scusa Signor Coso che ti lascio Frodo)!

Quando si scavalla il Passo Cir ci si trova di fronte una valle incoronata da montagnole (per quanto si possa parlare di montagnole sulle Dolomiti) e l’effetto è proprio quello di essere due piccoli hobbit davanti alla vastità del viaggio da fare.

Forse la sensazione di ineluttabilità e immensità era data un po’ anche dal vento gelido che tentava di soffiarmi via. Per cui, dopo circa dieci minuti dal mio rapidissimo spogliarello, ero di nuovo con il pile e il k way addosso. E sta volta c’era anche lo scaldacollo. E niente: il mio audace momento selvaggio “il clima delle Dolomiti mi fa un baffo” si era già consumato. Questa sono io in montagna… e d’inverno… e in generale quando fa freddo.


L'altopiano del Puez


L’escursione sull’altopiano del Puez


Dato che il Puez è un altopiano il percorso è tendenzialmente in quota attraverso due vallate intonse, vergini, e non troppo affollate. A separare le due vallate alla Forcella de Crespeina (2528mt) si trova uno steccato per animali. Si procede quindi fino alla Forcella Ciampas (2460mt) ed è qui che il sentiero 2 diventa il sentiero 4.

Per raggiungere il Rifugio Puez, dove abbiamo pranzato, alla Forcella de Ciampei (2366mt) bisogna salire delle scalette di pietra tenendo sempre a sinistra una meravigliosa vallata che ci ha accompagnati più o meno per tutto il percorso. Sulle scalette di pietra non ho molto da dire, se non che a quanto pare hanno inspiegabilmente ispirato in me e nel Signor Coso una serie di foto alla Zoolander. A giudicare dalle facce che abbiamo fatto, fare la Magnum non è un lavoro così facile.

Dal Rifugio Puez (2475mt) si potrebbe salire per la Cima del Piz de Puez, ma siccome richiedeva un paio d’ora tra salire e scendere noi abbiamo preferito lasciar perdere: d’altro canto la strada del Puez è una bella scarpinata!


Panoramica dell'altopiano del Puez da Passo Cir


Il ritorno a Colfosco


Tornando indietro abbiamo deciso di scendere verso Colfosco, visto che avevamo l’hotel lì. Così alle famose scalette di Zoolander invece di andare dritti abbiamo preso a sinistra per uno zig zag di rocce che lentamente si ammorbidisce in un sentiero di valle. Qui siamo stati circondati da marmotte che, per fortuna, sembravano più interessate a giocare ad Acchiappa la talpa (loro erano le talpe ovviamente) che a conquistare il mondo. Considerando quante erano e quanto erano brave a giocare ad acchiappa la talpa, l’avrebbero potuto conquistare facilmente. Altro che il Mignolo col Prof!

Il sentiero porta alla base della parete del Sassongher e da qui si scende facilmente verso il Rifugio Edelweiss dove ci siamo mangiati una merendina a base di kaiserschmarren con i frutti di bosco freschi. Veramente buona! Talmente buona che me la ricordo anche io, non solo il Signor Coso. E ho detto tutto.

È tornando indietro che, finalmente, abbiamo incontrato Babbo Natale, quello della Tridentina, ve lo ricordate? Solo che noi non eravamo ancora stati sulla Tridentina quindi questa è stata assolutamente la prima volta che abbiamo visto questo omone dalla barba bianca e dal vestito e lo zaino rosso. Ve la immaginate la nostra reazione? Beh, semplice: lo abbiamo fissato da lontano e sempre più da vicino con sempre più sbalordimento. A pensarci bene forse io avevo persino la bocca spalancata quando gli siamo passati accanto e quando lo abbiamo superato ci siamo voltati anche un paio di volte per guardarlo, come se temessimo di aver avuto un’allucinazione.

E visto che è Natale vi rivelo un segreto segretissimo: Babbo Natale è tedesco! Ve lo assicuro: ha detto “guter abend”.


La vista della vallata dell'altopiano del Puez dalla Forcella Ciampei


Scheda dell’escursione:


Partenza: Passo Gardena (a piedi)
Arrivo: Colfosco (a piedi)
Difficoltà: E
Durata: 7 ore circa
Dislivello: 855mt
Sentieri: 2, 4
Rifugi: Rifugio Jimmy, Rifugio Puez, Rifugio Edelweiss


Le fotografie sono state scattate da me e dal Signor Coso

venerdì 15 dicembre 2017

VALLEY UPRISING

IL DOCUMENTARIO SUI FOLLI CONQUISTATORI DEL PARCO YOSEMITE

Oggi niente escursioni o ferrate. Oggi facciamo un articolo un po’ diverso, un articolo che parla di gloriosi folli che hanno preso d’assalto e conquistato monoliti inaccessibili, ma che non si sono presi troppo sul serio mentre lo facevano. Oggi parliamo di Valley Uprising, il documentario sui re, i maestri e le scimmie del Parco Yosemite.

Valley uprising Yosemite's Rock Climbing Revolution
Fonte e copyright: Sender Films
Quando mi sono imbattuta su Netflix in questo lungometraggio di 90 minuti non sapevo veramente a cosa andavo incontro. A dire il vero non sapevo niente della mecca dell’arrampicata americana se non il suo nome: Yosemite (che nella mia testa puntalmente fa echeggiare la sigla di Yoghi anche se quello era lo Yallowstone, lo so), quindi figurarsi se sapevo che pazzie erano state fatte su quelle rocce.

Non sapevo, ad esempio, che è da sei decenni che c’è una guerra tra i climber e i ranger del parco. Una battaglia che il documentario racconta con quel tono leggero, rapido e divertente che caratterizza tutto il film. Uno scontro, il loro, che per molto tempo sembrava fosse vinto dai climber ma adesso, forse, sono i ranger ad avere la meglio, ma non esageriamo: sono sempre i folli, irriverenti climber di Yosemite di cui stiamo parlando.


La prima generazione: i re dello Yosemite


Lo Yosemite diventa Lo Yosemite negli anni Cinquanta, quando c’era gente come Jack Keruac che percorreva in lungo e in largo le strade d’America, c’erano i surfisti che tagliavano le onde e la beat generation che dettava un nuovo stile di vita. A Yosemite c’erano loro: i re dello Yosemite

Erano i primi arrampicatori che arrivavano lì. In America non c’erano la storia e la cultura dell’arrampicata che l’Europa già aveva e loro se le costruirono passo dopo passo, chiodo dopo chiodo. Erano folli, liberi e bohemien. Si erano accampati alla base di questi colossi rocciosi, tra alberi ed erba e non se ne andavano, non lavoravano, facevano festa e si arrampicavano. Niente di più. A volte facevano festa e si arrampicavano allo stesso tempo a dire il vero. Tipo Warren Harding, uno dei grandi nomi dell’età dell’oro dell’arrampicata americana. Scalava portandosi dietro le bottiglie di vino (e bevendosele anche) e una volta si fece mandare su il tacchino del ringraziamento mentre se ne stava lì in parete. Lo avevo detto che erano matti, no?! Per altro Harding fu anche quello che, rimasto bloccato per giorni in parete per colpa di un temporale, ricacciò indietro a male parole i soccorsi affermando che non ci fosse la minima necessità di soccorrere nessuno. Per favore, non fatelo a casa: lui stava fuori come un balcone!

Oltre ad essere matto, però, Harding aveva una specie di arcinemico che, tra le altre cose, era anche lui uno dei migliori climber fra i re: Royal Robbins. Ora se Harding era un alcolizzato che si dava alle arrampicate Robbins era una specie di filosofo che arrampicava pareti. Avevano un modo di approcciarsi alla roccia talmente diverso che non potevano che essere sempre in contrasto e in competizione. E sapete cosa succede quando due persone vogliono primeggiare? Si conquistano vette. E loro, per esempio, rincorrendosi hanno conquistato prima l’Half Dome (2694mt) e poi El Capitan (2307 mt), tanto per dirne due. Ed El Capitan è alto più o meno tre Empire State Building, per darvi un’unità di misura, figurarsi l’Half Dome!

L’era d’oro dei re dello Yosemite è durata circa vent’anni. Nel 1970, poi, Harding e Dean Caldwell conquistarono Dawn Wall, una delle vie più difficili di El Capitan. Se siete romantici potete dire che quello è stato l’ultimo glorioso atto dei re.



La seconda generazione: i maestri dello Yosemite


Yosemite però non aveva ancora finito di svezzare e crescere i più strani, spericolati e audaci climber del nuovo mondo. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta a padroneggiare le rocce e i massicci del parco ci furono gli Stonemaster: un gruppo forse ancora più folle dei re che lo avevano preceduto.

La caratteristica principale degli Stonemaster era che avevano abbracciato pienamente la filosofia del libero amore e delle libere droghe. E se fare l’amore in parete è abbastanza difficile da averli scoraggiati tutti a provare, almeno per quanto ne sappiamo, arrampicarsi subito dopo o mentre si fa assunzione di droghe è un po’ più comodo. Comodo, non sicuro. Quindi particolarità di questi simpatici pazzi irresponsabili era che si arrampicavano sotto effetto di LSD. A confronto Harding sembra un santo ora! Come prima: non fatelo a casa, grazie!

Per incredibile coincidenza questi scellerati furono ulteriormente aiutati nel loro consumo, e poco dopo spaccio, di droga dalla caduta di un aereo. Se l’aereo fosse stato un aereo qualunque la cosa non sarebbe stata di particolare rilevanza, ma visto che questo particolare aereo era pieno di marijuana colombiana, e che per il punto dove era caduto i climber lo raggiunsero prima dei ranger, ebbe inizio un piccolo mercato di marijuana che rifocillò per un po’ le loro tasche sempre vuote. Se questa storia vi suona vagamente familiare sappiate che è perché da questo episodio è stato tratto un film con Silvester Stallone, Cliffhanger.

Comunque gli Stonemaster non sono rimasti famosi solo per l’uso della droga e per gli aerei caduti. Sono stati loro a cominciare il free climbing, ossia quella pratica di arrampicata dove l’unico sostegno è dato da mani, piedi e una corda di sicurezza, e il free solo, dove ci sono solo mani e piedi e niente più corda anche se si è magari a 300 mt da terra. Uno dei maestri del free solo era proprio uno Stonemaster: John Bachar.

Se alla base dei climber dello Yosemite c’era il rifiuto del materialismo non stupisce che la morte di questa seconda generazione sia avvenuta per mano degli sponsor e dei soldi che hanno cominciato a girare quando l’arrampicata divenne mainstream. Molti degli Stonemaster, infatti, divennero sportivi professionisti e il gruppo, semplicemente, si sciolse.


Fonte: Mountain Home Air Force Base; foto di Connor J. Marth

La terza generazione: le scimmie dello Yosemite


Dagli anni Novanta e ancora oggi lo Yosemite è il parco-giochi degli Stone Monkeys, climber come Cedar Wright, Dean Potter, Kevin Jorgeson e Tommy Caldwell, che per primi hanno concluso un’arrampicata libera del Dawn Hall, e Alex Honnold, uno dei più forti free climber viventi.

E se tutto sembrava essere già stato fatto tra quei massicci proprio queste scimmie hanno dimostrato che ancora tutto era da fare. All’ombra di quei colossi in questi anni si può osservare audaci pazzi intenti a fare speedclimbing, o arrampicata veloce e già il nome dice tutto, o a fare bouldering, una forma di free solo su massi fino a 7-8 metri. Altri ancora praticano il base jumping, ossia si buttano dalle vette di questi massicci e atterrano con un paracadute, o il giovanissimo free base, ossia una forma di free solo dove l’elemento di sicurezza è rappresentato da un paracadute. Ed è proprio con questi due ultimi sport che si presentano sostanziosi problemi perché se nel Parco dello Yosemite non è illegale arrampicare lo è buttarsi col paracadute. Per cui ogni volta che un climber ne apre uno scatena con i ranger una caccia del gatto al topo.

Se come me, però, vi viene un po’ di brivido freddo all’idea di fare free solo su El Capitan potete sempre darvi allo slackline, un esercizio di equilibrio che consiste nel camminare su di una fettuccia tesa tra due punti. Ma fatelo tra gli alberi, a pochi metri da terra; non tra due massicci a metri e metri di altezza come certe scimmie dello Yosemite.


Fonte: Lwp Kommunikàciò, foto di Alex Honnold mentre fra free climbing su El Capitan, scattata da Pete Mortimer

Scheda del documentario:


Sceneggiatore: Peter Mortimer, Nick Rosen
Regista: Peter Mortimer, Nick Rosen
Produttore: Sender Films, Big Up Productions
Narratore: Peter Sarsgaard
Durata: 90 minuti
Anno di uscita: 2014

venerdì 8 dicembre 2017

IL GIRO DEI LAGHI DEL CEVEDALE

LA VOLTA CHE HO DATO UNA TESTATA AL FINESTRINO (MA PER LO MENO NON SIAMO CADUTI DISOTTO)

A sei anni sognavo spessissimo di precipitare mentre guidavo la macchina. Che bimba precoce! Comunque era il mio incubo ricorrente. Quindi capite perché non gradisco molto le escursioni facili, ma che minacciano di farti fare un volo con l’automobile già solo per raggiungerle? Tipo, per dirne una, il Giro dei laghi del Cevedale. Oh, sarà una cosa mia – eh! – non dico di no, ma preferisco le strade larghe. Tanto così per dire.

Riflesso del Cevedale innevato nelle acque limpide del Lago Nero

L’avvicinamento a Malga Mare


Per raggiungere il Giro dei Laghi, nel bel mezzo del Parco Nazionale dello Stelvio, bisogna fare circa una mezzora di viaggio in macchina da Cogolo in direzione Malga Mare. Se il viaggio non fosse da fare su una stradina a doppio senso di circolazione abbastanza larga da far passare giusto un risciò monoposto andrebbe anche bene, ma visto che il risciò si è fatto la fiancata sulla parete rocciosa per evitare il precipizio dall’altro lato non è che fossi proprio esaltata all’idea di doverla fare con una macchina.

Tendenzialmente è chi sale che si trova dal lato della maggioranza dei tratti strapiombanti quindi è un primo impatto che mette a dura prova le coronarie. Considerando però la bella e vecchia regola delle strade di montagna secondo cui è solitamente chi scende che si ferma a lasciar passare, almeno in fase di salita ci si deve accostare il meno possibile.

A circa metà strada c’è il pedaggio. Una specie di dogana per poter accedere al parcheggio (che è decisamente più in alto). Il costo dovrebbe essere intorno ai 3 euro, se ricordo bene, ma se si è in possesso della Trentino Guest Card – Val di Sole Opportunity viene solo 1 euro (o almeno è stato così nell’estate 2017). Insomma un prezzo accettabile per evitare di doversi fare chilometri sotto il sole sulla strada asfaltata prima di poter attaccare il vero e proprio giro.

Il parcheggio è su uno sterrato appena raggiunta una centrale idroelettrica. E almeno lui è abbastanza ampio da assicurare al risciò di stiracchiarsi e di incontrarsi con una moltitudine di suo amici risciò. Sì, diciamo che il parcheggio è grande una moltitudine di risciò.


La valle del Giro dei laghi del Cevedale vista dal Rifugio Larcher

L’inizio del Giro dei laghi del Cevedale


Il giro vero e proprio si attacca dal parcheggio che è giusto a cinque minuti da Malga Mare (1072mt) prendendo la mulattiera a sinistra. Dal Ristorante Malga Mare, quindi, un sentiero porta fino a Pian Venezia con i suoi mille rivoli e fiumiciattoli. In effetti l’acqua non manca per tutta l’escursione. Ma lo avevate già intuito dal nome, vero?!

Dopo essersi discostati dal bosco si comincia a procedere su un costone con a destra una parete rocciosa e a sinistra lo sprofondare della valle. Nonostante sia un sentiero facile e sicuro meglio prestare attenzione a dove si mettono i piedi: un passo falso e si scivola giù.

La vera rogna di questo sentiero è che è lungo e ventoso e quando ci siamo andati noi era pure assolato. Insomma, come spesso capita in montagna, non è proprio una passeggiata leggera. Però se si tiene duro (e ogni tanto ci si bagna la testa per evitare colpi di insolazioni che facciano vedere risciò volanti) si riesce a raggiungere il Rifugio Larcher (2608mt).

Cosa ha di speciale il Rifugio Larcher? A parte il miglior succo di mirtillo che io abbia mai bevuto nonostante fosse un normalissimo succo che si può comprare in qualsiasi peggior bar di Caracas? Il fatto che è ai piedi del Cevedale. Quindi se per caso si ha voglia di avventurarsi su un ghiacciaio da qui è possibile: c’è un sentiero ben segnalato che porta dritti sul Cevedale. Ma secondo voi noi abbiamo pensato anche solo un momento di prendere quel sentiero? Certo che no!

Per continuare verso i laghi c’è un sentiero pietroso a destra, poco prima del rifugio. In sostanza è essenzialmente un tornante della strada percorsa lungo il costone. Sale per un po’ prima di cominciare a scendere verso il Lago Marmotta (2704mt). Un laghetto carino, ma che, vi assicuro, non regge il confronto con quelli che lo seguono.

Con un sentiero in quota, il sentiero 4, si passa accanto a ben tre altri laghi, costeggiando continuamente i vari impianti accessori alla diga che aiuta a produrre l’energia elettrica della zona. Il primo lago che si incontra, a cui si può scendere se proprio si vuole ma non è così necessario, è il Lago Lungo (2550mt). Il secondo è il preferito mio e del Signor Coso: il Lago Nero (2621mt). Perché sia così bello il Lago Nero è difficile dirlo. Non è molto grande, non è di un colore particolare e non è più limpido degli altri. Ha, però, delle belle rocce su cui fermarsi a mangiare metri sopra al lago, e nelle sue acque si riflettono tutti i monti intorno. Sono quasi sicura di averci visto persino il Vioz. Insomma, è suggestivo il signorino.

Abbandonato il Lago Nero si raggiunge la vera primadonna del giro: il Lago Careser (2603mt). Lui sì che ha un colore particolare: un azzurro intenso che forse nasce dal ghiacciaio da cui prende le acque o forse no. Sul Careser, però, domina una diga immensa che avrebbe fatto la felicità di mio padre a vederla dal vivo, ma non certo la mia. Sì perché mio padre è un estimatore di dighe, gallerie, gru e roba così; io invece sono una fan dei paesaggi naturali vergini.


Il Cevedale innevato visto dal Rifugio Larcher

Il ritorno dal Giro dei laghi del Cevedale


Per concludere il giro è necessario attraversare la diga. Poi si prende il sentiero 123 che in circa un’ora e mezza, in uno zig zag tra i boschi, riporta al parcheggio. Da qui noi siamo risaliti verso il Ristorante Malga Mare perché non avevamo ancora pranzato. E per la rubrica “Cosa ha mangiato il Signor Coso?” vi informo che giura di essersi sbranato un panino con la salsiccia. Ora, voi non conoscete il Signor Coso, ma vi assicuro che ha la memoria di un criceto con l’amnesia (più o meno come me) quindi il vero mistero è: come fa a ricordarsi sempre quello che ha mangiato?

Per tornare indietro, comunque, si deve rifare la malefica strada del risciò monoposto, sempre in macchina. Però questa volta si scende per cui si è dal lato dove la roccia è preponderante e si è anche quelli che si devono fermare e accostare. E visto che vi state chiedendo come mai non mi era ancora successo qualcosa di buffo ma doloroso in questo giro vi svelo quello che è accaduto.


Indovinate chi è che si è dovuto accostare proprio in uno dei rari punti in cui c’era lo strapiombo per far salire un paio di macchine? E siccome era il Signor Coso a guidare io sono quella che si è voltata per controllare di non precipitare di sotto. Sarà stato per la stanchezza o per l’incubo ricorrente o che so io, ma quando mi sono voltata per guardare, sporgendomi pure un po’ per vedere meglio, ho dato una testata potentissima al finestrino chiuso. E niente, il Signor Coso ha fatto manovra da solo mentre io rintontita mi schiacciavo le mani sulla fronte nel punto dove probabilmente mi ero procurata un’emorragia cranica. Ero quasi tornata intera a casa… Grazie malefica strada del risciò!


Il lago Careser e la sua diga

Scheda dell'escursione


PartenzaCogolo (in macchina)
Arrivo: Cogolo (in macchina)
Difficoltà: E 
Durata: 5 ore circa 
Dislivello: 800m 
Sentieri: 104, 123
Rifugi: Ristorante Malga Mare, Rifugio Larcher

Le fotografie sono state scattate da me e dal Signor Coso

martedì 5 dicembre 2017

BLOGGER RECOGNITION AWARD

OSSIA LE COSE CHE NON TI ASPETTI

È successa una bella cosa qualche giorno fa: il blog Avventure Ovunque mi ha nominata per il Blogger Recognition Award. E considerando che è solo da qualche mese che sono attiva qui su Pensieri Verticali è stata decisamente una cosa che non mi aspettavo, ma che mi ha fatto tantissimo piacere. Per cui per prima cosa voglio ringraziare Avventure Ovunque che, per chi non lo sapesse, è un bel travel blog e se come me sognate un giorno di vedere la Scozia dal vivo fateci un salto: vi farà sognare ad occhi aperti e vi farà anche un po’ rosicare di non esserci ancora andati.

Blogger Recognition Award 2017

Cos'è il Blogger Recognition Awards?


Per prima cosa spieghiamo un attimo cos’è il Blogger Recognition Award. Avete presente l’Oscar? Ecco, dicono che sia l’Oscar dei blog! Però non funziona proprio nello stesso modo quindi niente selfie con Bradley Cooper, temo. In realtà è un riconoscimento che ci si scambia tra blogger con lo scopo di promuovere e incoraggiare tutti quei sani e meravigliosi pazzi che spendono tempo e fatica a raccontare le loro avventure e le loro passioni a chiunque le voglia leggere.

Come tutte le iniziative, però, ha delle regole ma sono poche e semplici:

  • Prima di tutto bisogna ringraziare il blog che vi ha nominato (che poi è anche una regola di buona educazione insomma)
  • Si deve scrivere un post per mostrare il proprio riconoscimento
  • Bisogna raccontare la nascita del proprio blog
  • Si deve dare qualche consiglio ai nuovi blogger 
  • E alla fine si devono nominare altri 15 blog che secondo voi meritano il BRA
  • Ultima cosa da fare è commentare sul blog di chi vi ha nominato fornendogli il link al post

Come è nato Pensieri Verticali?


L’idea di cominciare a scrivere un blog in realtà mi è balenata in testa molto tempo fa. Però l’ho sempre ignorata perché, beh, alla base di tutto sono timida e mi imbarazzava anche solo il pensiero. Ma certe idee sono tenaci e lo sanno meglio di te cosa è importante che tu faccia. Per cui l’idea è tornata più volte a bussare alla mia porta. Nel frattempo il mio amore per l’escursionismo è cresciuto e ho cominciato a leggere sempre più le storie di alcuni di quei meravigliosi pazzi di cui parlavamo prima che avevano avuto molto meno timore di me. Così la voglia è cresciuta. Però non mi sentivo abbastanza esperta per creare un blog tecnico, quindi ho cominciato a pensare che forse faceva al caso mio un altro tipo di racconto: qualcosa di leggero ma non sciocco, che facesse in qualche modo respirare la gioia di andare in montagna che pervade tutti gli alpinisti e la bellezza che si trova in vetta. Insomma mi è venuta la folle idea di fare divulgazione sull’escursionismo, di “svecchiare” la sua immagine, di renderlo un po’ più mainstream se così possiamo dire. Ci sono riuscita? Ancora no, credo; ma in fin dei conti è presto. Bisogna continuare a provare.


Consigli per i blogger


Oddio! Avendo cominciato solo da qualche mese non credo di essere in diritto di dare consigli a chi vuol mettere su un blog. Forse l’unico consiglio buono che posso dare è di farlo con passione e di scrivere su qualcosa che appassioni. Tenere un blog sa dare grandi soddisfazioni, ma richiede anche impegno e la passione aiuta sempre a rendere l’impegno leggero come una piuma.


Le nomination al Blogger Recognition Award


Ed ecco la fase dell’apertura della busta con i nomi dei 15 blog. La lista non è una classifica, come dice Benedetta Parodi, alias è in ordine sparso. 
Tutti i blog scelti parlano di montagna e di natura in vari modi. Alcuni hanno un concept che mi ha stregato, altri offrono fotografie meravigliose e altri ancora escursioni avvincenti e descritte benissimo. Insomma sono tutti dei bei blog a modo loro. Certamente non sono gli unici (ne ho lasciati fuori un bel po’), ma si sa: tocca sempre fare una scelta. Ma se voi avete qualche altro bel blog da consigliarmi fatelo pure nei commenti: adoro scoprire perle che mi sono persa.

L'immagine di copertina di questo post è stata creata da me. Siccome, però, la fotografia non mi appartiene ed è free copyright sentitevi liberi di riutilizzare l'immagine se vi va

venerdì 1 dicembre 2017

LA MARMOLADA, LA REGINA DELLE DOLOMITI

LA VOLTA CHE CI PARTO DA CASA PER IL GHIACCIAIO E POI… “MA CHE SI È SCIOLTO?”

Oggi mi sento molto Gerry Scotti quindi facciamo un quiz. Qual è il ghiacciaio più esteso delle Dolomiti? Vi concedo l’aiuto da casa… avete trovato la risposta? Sì, bravi! La Marmolada! E ora la prossima domanda: qual è il ghiacciaio che quando ci sono andata era così sciupato che alla nonna sarebbe venuto un coccolone a vederlo? Bravi! Di nuovo la Marmolada! Perché se ci parto dal centro Italia per vederlo vuoi che lui non si sciolga un po’?


Vista della Marmolada tra le nuvole dal Lago Fedaia

La partenza da Campitello


Premessa necessaria: io non faccio escursionismo invernale. Il che significa che sulla Marmolada ci sono andata d’estate (e questo potrebbe spiegare perché il ghiacciaio si era sciolto) ma significa soprattutto che io non so procedere sui ghiacciai. Quindi secondo voi questo è un articolo che vi parla della ferrata sulla Marmolada o di un’escursione sul ghiacciaio? No! Certo che no. E non perché sono pigra, ma perché volevo evitare di finire zampe all’aria, più del solito per lo meno.

Ora quell’estate io non vedevo l’ora di vedere questa famosa Marmolada, di cui avevo sentito parlare per la prima volta una decina di giorni prima a dire il vero, ma sono una persona capace di fissarsi con le cose in poco tempo. Comunque, tornando a quella mattina, ero euforica al punto che non mi è pesato neppure troppo svegliarmi presto e aspettare nel fresco della mattina alpina l’autobus che da Campitello ci avrebbe portato al Passo Fedaia. E non ho neanche sofferto il mal di auto – il che è incredibile se si pensa a che tornanti ci sono sulle Dolomiti – ma questo penso sia stato più che altro un colpo di fortuna. Ogni tanto capita anche a me.

Arrivati al Passo Fedaia ci si è parata di fronte una di quelle dighe che di per sé non hanno alcun fascino se non fosse che il lago che creano è veramente stupendo. Ecco il Lago Fedaia (2050mt) è esattamente questo: uno specchio di acqua limpida meraviglioso in cui si riflettono le sagome aguzze dei monti intorno. Per cui attraversare la diga ha richiesto molto più tempo del previsto: ci fermavamo ogni due passi per fare tremila foto. È d’altra parte, però, che si può finalmente cominciare a salire verso la Marmolada.


Il Lago Fedaia in un giorno sereno con i monti che vi si riflettono

La salita alla Marmolada


Per salire sulla Marmolada evitando sentieri si può prendere la gabbiovia. Salire su una gabbietta due posti con il cancelletto che ti arriva alla vita però non è da tutti. Specie perché il viaggio è piuttosto lungo e oscillante. Così da sei che eravamo ci siamo subito ritrovati in quattro: Wiiiiiwoman e Dottor Uka hanno preferito circumnavigare il Lago Fedaia per tutti i suoi 2 chilometri. Sapete com’è: soffrono di vertigini…

La gabbiovia arriva al Rifugio Pian di Fiacconi (2626mt) che abbiamo totalmente ignorato. Ci siamo subito avviati lungo la scalinata di rocce che in neanche mezzora porta al secondo rifugio: il Rifugio Ghiacciaio Marmolada (2700 mt). Da qui comincia il ghiacciaio vero e proprio. Se avete fortuna si estende in ogni dove. Quell’estate, invece, aveva deciso di sciogliersi un po’ quindi non è che facesse proprio tutto questo effetto. Cioè, non fraintendetemi: restava comunque un signor ghiacciaio, o almeno suppongo (non è che io ne abbia visti molti di ghiacciai in vita mia). Però è stata una mezza delusione, ecco!

In realtà non abbiamo fatto molto lassù. Abbiamo passeggiato un po’ sulla neve e un po’ sul ghiaccio, ma per lo più abbiamo camminato sulle rocce. Il problema è che sono un po’ paranoica e non volevo imbattermi in crepacci… non che io ne abbia mai visto uno o che avessi prove che ce ne fossero sulla Marmolada, ma diciamo che non volevo neanche scoprirlo. Insomma non è il mio sogno nel cassetto fare la rabdomante di crepacci.

Quindi abbiamo evitato anche di andare nel punto panoramico raggiungibile dalla cresta a sinistra del rifugio: troppa neve per i nostri gusti. E ovviamente niente Punta Penia: ve lo avevo detto che qui non c’era nessuna storia di escursioni o di vette. Ce ne siamo stati essenzialmente lì a goderci il panorama e a immaginare come dovesse essere la vista della Marmolada quando c’era ancora la città di ghiaccio, ossia quel reticolo di cunicoli che poveri soldati dovettero scavare nel ghiaccio, lassù, durante la Prima Guerra Mondiale. Poveracci! Non li invidio.




Il ghiacciaio e il laghetto glaciale della Marmolada visti dal Rifugio Ghiacciaio Marmolada

Il ritorno a Canazei


Ritornare indietro dalla Marmolada, senza escursioni o ferrate, significa riprendere la gabbiovia. Consiglio a tutti quelli che si troveranno lassù: tenente a mente che non siete nel nulla cosmico. Insomma se avete necessità, per così dire, di emettere un po’ d’aria ricordatevi che vi si sente. Ve lo posso dire con certezza perché un signore che saliva mentre noi scendevamo ha voluto fare la prova. Te lo dico adesso anonimo, sconosciuto signore: ti abbiamo sentito, eccome se ti abbiamo sentito!

Allontanarsi dalla neve e dal ghiaccio della Regina delle Dolomiti fa uno strano effetto perché, quando si incontra con lo sguardo il blu del lago, è un po’ come tornare alla vita. E ancora non ho capito perché tutte le leggende intorno alla Marmolada parlano di fieno visto che lassù non se ne vede. Insomma ce ne è una su una vecchietta che mentre raccoglieva il fieno a inizio agosto è stata sorpresa dal cattivo tempo e adesso starebbe ancora lassù tra le nevi perenni, e un’altra sugli abitanti di Sottoguda che a forza di raccogliere fieno hanno fatto diventare la Marmolada un cumulo di ghiaccio e rocce. Non ho ben capito il perché di tutte queste storie, ma suppongo che la morale sia che se devi andare su un ghiacciaio non è una buona idea mettersi a raccogliere il fieno. Proprio una di quelle lezioni che ti servono nella vita di tutti i giorni!

Ah! Un consiglio spassionato: se tornate indietro con l’autobus come noi scendete a Canazei. C’è un chioschetto che fa wurstel deliziosi.



La gabbiovia per salire alla Marmolada

Scheda dell'escursione


PartenzaCampitello (in autobus)
ArrivoCampitello (in autobus)
Impianto di salita: Gabbiovia
Rifugi: Rifugio Pian di Fiacconi, Rifugio Ghiacciaio Marmolada


Le fotografie sono tutte del Signor Coso

venerdì 24 novembre 2017

LA SALITA AL SASSONGHER

LA VOLTA DI "SCOMMETTO CHE SAREBBE UN BEL PANORAMA SE STA NUVOLA NON FOSSE COSÌ PRIMA DONNA"

Devo fare una confessione: ho tradito una volta! Ricordate quando vi ho detto che il mio grande amore è il Vioz? Ecco, prima del Vioz c’era un altro e… come dire? Beh, sì! L’ho tradito. Povero Sassongher! Non se lo meritava! D’altro canto lui mi ha regalato un’escursione faticosa, ma quasi serena, a differenza del Vioz. Sarà che, forse, un po’ masochista lo sono…
Comunque ecco la storia di com’era prima che ci fosse il Vioz.




Il Sassongher visto da Corvara


La partenza da Colfosco



Il Sassongher è stato il primo monte che ci ha regalato la vetta l’estate in cui eravamo a Colfosco, quella della Tridentina per intenderci.
A guardarlo da sotto un po’ incuteva timore con quella sua altezza, specie perché si doveva partire dal paese. Immaginatevi la scena: io nel bel mezzo di questo infinito rettilineo che è in sostanza Colfosco tiro su il naso e fisso questo monte che domina la gola e tutta serena chiedo “e quindi quale sarebbe questo Sassongher?” e il Signor Coso punta il dito proprio verso il colosso. Lo ammetto: mi è preso un colpo. Ma ho dissimulato, giuro! Sto diventando bravissima a dissimulare. 


La mattina, dopo muniti di entusiasmo e una giusta dose di fretta (il meteo prometteva pioggia nel pomeriggio), abbiamo raggiunto in pochi minuti la chiesa di Colfosco (1645mt), un piccolo e delizioso edificio col suo fascino minuto di chiesetta di montagna. Da qui parte la strada che permette di raggiungere il Rifugio Edelweiss. Da prima è una strada asfaltata, ma poi si fa sempre più sterrata e, comunque, fin dal primo passo mantiene una pendenza che la dice lunga sull’intera salita alla vetta. Mettiamo subito le cose in chiaro: salire al Sassongher non richiede troppo tempo, ma di certo pretende buone gambe e buoni polmoni perché la strada è molto, ma molto ripida. E infatti già dopo i primi minuti io stavo ansimando e, come mio solito, mi stavo togliendo i 110 strati di vestiti che mi ero messa addosso appena avevo messo il naso fuori dall’hotel. Ma questo è normale.


La vista salendo per la cima del Sassongher



La salita al Sassongher



Sbagliare strada dal Rifugio Edelweiss è praticamente impossibile. Per salire al Sassongher basta prendere il sentiero 4 e andare dritti per dritti attraverso la Valle Stella Alpina. Bisogna solo fare attenzione a dribblare gli animali lasciati liberi al pascolo, ma non è nulla di così infattibile. Insomma non è che giochino a mettervisi in mezzo ai piedi. In effetti i cavalli (o erano asini?) che brucavano l’erba intorno al rifugio non sembravano interessati a fare da ostacoli sul sentiero, non come certe mucche che si incontrano sul Col di Lana, ma lasciamo stare: questa è un’altra storia.

Il lato positivo di procedere per una salita che in ogni suo centimetro è sicura di essere una salita (davvero? Neanche un piccolo dubbio? Una minima esitazione a forma di vaga pianura? Niente? Ok Sassongher, come vuoi tu: e tutta salita sia!) è che alla fine impari una delle regole auree dell’andare in montagna: tappati la bocca e risparmia il fiato! Il che è difficile per me perché, se non si fosse ancora capito, io sono una di quelle persone a cui vengono in mente milioni di cose da dire proprio quando non dovrebbe dirle e così quando vado in montagna divento logorroica, più del solito per lo meno. Però il Sassongher ha fatto il gran miracolo di azzittire anche me. Credo che il Signor Coso lo abbia amato per questo, ma non ho prove: è troppo furbo per ammettere che è vero.

L’unico bivio che si incontra sul sentiero 4 è alla Forcella del Sassongher (2435mt). Da qui se si gira a sinistra si può raggiungere l’altopiano del Puez mentre a destra si dipana il sentiero 7 che raggiunge la vetta del Sassongher.

Se il sentiero 4 è ripido ma arioso e tranquillo, il sentiero 7 è a tratti esposto e ancora più ripido. Avanza su ammassi detritici e gradoni di roccia che, però, non ricordo mi abbiano fatto cadere, anche se questa mia stabilità è davvero poco probabile. È più probabile, invece, che io sia caduta talmente tante volte che il mio orgoglio ferito ha lavorato per produrre una chiara e ovvia amnesia selettiva. Sarebbe facile scoprire la verità se non fosse che anche il Signor Coso sembra ricordare poco di questa salita. Sarà che non ci sono successe grandi tragedie; o forse il mio orgoglio ha prodotto un’amnesia anche per lui… è un tipo inquietante il mio orgoglio... Quindi per non istigarlo a far esplodere questo blog e venire a cercare tutti i suoi lettori atteniamoci alla versione di una me stabile e salda sulle sue gambe manco fossi un capriolo.
L’ultima parte del sentiero è forse il punto più delicato perché si procede con funi metalliche. Sono pochi metri di sentiero attrezzato, ma potrebbe mettere in difficoltà un escursionista inesperto che ignora di trovarselo lì, a qualche metro dalla vetta. Se si riesce a tenere duro e a superarlo, però, si raggiunge finalmente la cima del Sassongher (2665mt) da cui si può ammirare una bellissima vista sulla Val Badia, o almeno così mi hanno detto. Perché – ebbene sì – il meteo non mentiva. Quando siamo arrivati in vetta ancora non pioveva, ma una gigantesca nuvola aveva deciso di anticiparci, prendere possesso della cima e reclamarla come suo possedimento. Un gesto decisamente prepotente se posso dire la mia. Il risultato, comunque, è stato che abbiamo visto tanto grigio tutto intorno. Cosa che si può vedere anche in Val Padana senza farsi 1.020 metri di dislivello, ma va beh.


Panorama dalla vetta del Sassongher



Il ritorno a Colfosco



Siccome, appunto, il meteo non sembrava aver sbagliato il Signor Coso e io ci siamo goduti la vetta il tempo necessario a individuare uno stambecco (o era un capriolo?) sul massiccio di fronte e poi abbiamo ricominciato in tutta fretta la discesa.

La cosa buffa è che passavamo accanto a persone che erano chiaramente intenzionate a stazionare in vetta durante il temporale che sarebbe esploso di lì a qualche ora perché restavano a banchettare sulle rocce o salivano quietamente in ritardo verso la cima. Per cui a guardarci da fuori la scena doveva apparire così: una matassa di gente tranquilla, serena e assennata e due pazzi che si affrettavano a tornare giù dopo essere stati neanche un minuto in vetta. Per amor di cronaca: poi ha piovuto davvero però.

Comunque la discesa è lungo lo stesso sentiero di salita, quindi c’è poco da raccontare. Giusto che ci siamo fermati al Rifugio Edelweiss a mangiare. Il Signor Coso si è spazzolato via una Kaiserschmarrn; ci ha tenuto a specificarlo, vai a capire perché: immagino fosse buona. Di quello che ho mangiato io, come al solito, non ho memoria. In realtà le cose che ricordo meglio di tutta questa escursione sono il terreno brullo e grigio del Sassongher e la frase che mi sono canticchiata in testa a ripetizione per tutte le 6 ore del giro: “sei tu l’inizio di ogni cosa che tu immagini e sei la fine di ogni limite che superi, sei tutti i limiti che superi”. Dieci punti a chi indovina che canzone è senza andare a vedere su Google (dai, che è facile)!


I massicci che circondano il Sassongher visti dalla vetta

Scheda dell'escursione


PartenzaColfosco (a piedi)
ArrivoColfosco (a piedi)
Difficoltà: EE 
Durata: 6 ore circa 
Dislivello: 1.020mt


Le fotografie sono mie e del Signor Coso