venerdì 26 gennaio 2018

LA SALITA AL SASS PORDOI

LA VOLTA CHE “ANDIAMO SOLO A VEDERE LA CROCE” E POI SIAMO TORNATI INDIETRO DOPO ORE

La prima estate che sono stata sulle Dolomiti non ci partivo propriamente da casa con l’idea di stare fuori tutto il giorno a macinare chilometri. E a dire il vero non eravamo un gruppo che si fomentava a vicenda per fare escursioni sempre più lunghe o sempre più difficili. Ci andavamo soft, per così dire. Quindi capirete perché sul Pordoi ci siamo saliti con gli impianti.


Vista della vetta del Sass Pordoi, con la croce al centro e il panorama sullo sfondo


La partenza da Canazei


Il Pordoi è un tipo che si fa notare. Sarà perché è un bel punto panoramico su quello che lo circonda, e non è che è circondato da puffi eh! È circondato da signorine come la Marmolada o il Catinaccio. D’altro canto se il Pordoi è chiamato la terrazza delle Dolomiti un motivo ci sarà, e non è solo perché la forma della terrazza un po’ ce l’ha.

Detto questo si capisce subito perché volevamo farci un salto e dare un’occhiata a quello che si vedeva da lassù. A questo punto, però, ci toccava decidere come salire. La prima parte era facile: da Campitello abbiamo preso l’autobus che ci ha portato fino a Canazei e ci ha scaricato sotto la cabinovia. Da qui, con due tratti della Funivia Belvedere, abbiamo raggiunto la località Col de Rossi e con ancora un po’ di sforzo (ossia zero sforzo visto che è stata tutta questione di impianti) abbiamo raggiunto il Rifugio Fredarola (2388mt).

Ora, del Rifugio Fredarola io non ho ricordo, il che significa che non avevano nessun krapfen o che io non ero in cerca di krapfen in quel momento. Insomma se un rifugio si vuole far ricordare da me meglio che si munisca di krapfen. Detto questo anche il Signor Coso, che – è risaputo – ha tendenzialmente uno scolapasta al posto della memoria, ha un ricordo un po’ offuscato di questo rifugio. Quindi potrebbero o non potrebbero esserci stati degli animali di legno lì davanti. Che animali fossero o come fossero fatti non è lecito sapere e, a differenza delle civette del Col di Lana non abbiamo neanche foto quindi… forse c’erano degli animali di legno. Ciò che è certo è che a Passo Pordoi c’era una statua per Fausto Coppi che è un’informazione che qui non c’entra nulla, ma a forza di parlare di animali di legno mi è venuta in mente lei quindi ve l’ho detto (ah! Sì, per chi non lo sapesse il Passo Pordoi è rinomato per il ciclismo e le mie connessioni mentali hanno sempre lasciato perplessa anche me).

Il sentiero dal rifugio Fredarola all'impianto che porta alla cima del Sass Pordoi


Dal Rifugio Fredarola alla Forcella Pordoi: la salita al Sass Pordoi


Dal Rifugio Fredarola non è obbligatorio salire sul Sass Pordoi. Certo sarebbe strano arrivare fino a qui per salire sul Pordoi e poi non farlo, ma se siete tipi che amano sorprendersi potete prendere a destra e percorrere la Viel del Pan: un sentiero piuttosto in quota che vi porterà a vedere dall’alto il Lago Fedaia.

Noi invece, a quanto pare, siamo tipi noiosi e prevedibili perché avevamo deciso di raggiungere la cima del Sass Pordoi e sulla cima siamo arrivati. Abbiamo quindi preso un sentierino fangoso a sinistra del rifugio, aggirato un cucuzzolo (che ho appena scoperto essere un termine italiano e non regionale: incredibile!) chiamato Sas Belé e abbiamo raggiunto il Passo Pordoi (2239mt).

Arrivare al Passo Pordoi tramite cabinovia, in realtà, non è obbligatorio: ci si può arrivare in pullman, macchina o, se si è Coppi, bicicletta. Noi siccome non eravamo Coppi, ma non eravamo neanche Peter Griffin abbiamo pensato di propendere per un compromesso: un po’ di impianti, un po’ di passeggiata.

A Passo Pordoi abbiamo preso un ulteriore impianto di risalita che, stavolta, procedeva tanto in verticale da sembrare un ascensore tra guglie di rocce. Su queste guglie, per altro, potrebbero o non potrebbero esserci stati degli arrampicatori. Per come sta andando questo racconto direi che il Signor Coso e io abbiamo appena inventato gli arrampicatori, gli animali di legno e a questo punto anche l’intero Pordoi di Schrödinger.

L’ascensore-funivia porta direttamente al Rifugio Maria (2950mt) che è il più santo rifugio della storia visto come ha saputo proteggerci da un vento gelido che neanche la Bora di Trieste. Noi, comunque, da ingrati e incoscienti abbiamo lasciato i suoi lidi sicuri per avventurarci a sinistra sulla terrazza che dà a strapiombo sulla vallata di Canazei. Qui, oltre alla meravigliosa vista, trionfa una croce nel cui interno sono incastrate milioni di rocce infilate da milioni di alpinisti prima di noi. Le rocce, però, sono sempre pronte a scivolare via, così ogni giorno un nuovo alpinista ha l’occasione di costruire questa moderna e collettiva tela di Penelope. 

La vallata di rocce che si vede dalla cima del Sass Pordoi


Una volta fatte le foto di rito, invece di ritirarci al sicuro nel Rifugio Maria, ci siamo avventurati in una discesa sassosa per circa 100 metri fino alla Forcella Pordoi dove si trova un rifugio dal fantasiosissimo nome: il Rifugio Forcella Pordoi (2846mt). Per raggiungerlo, in totale onestà, avremmo potuto percorrere un sentiero a zig zag di circa 2 ore che avrebbe sostituito gli infiniti impianti di cui sopra. Ma mi sembra evidente che in questa lotta Peter Griffin si è mangiato Coppi.

Comunque valeva la pena fare un salto al Rifugio Forcella perché lì, libero e felice come se fosse un cane, abbiamo incontrato un maiale. Davvero! Era un maiale, letteralmente. Un maiale domestico, credo, di certo abituato al via vai della folla. Era carinissimo e a pensarci adesso… spero che nessuno se lo sia mangiato quel maialino (ino è solo un vezzeggiativo, non aveva nulla di ino).

A questo punto la nostra gita sul Pordoi sarebbe dovuta finire. Non avevamo previsto di andare più lontano di così, e infatti le nostre amiche hanno fatto dietro fronte e son tornate a casa, ma il Signor Coso e io, a quanto pare, siamo persone un po’ incostanti in questo. E d’accordo che non ci eravamo partiti da casa, ma a un paio di ore di cammino da lì c’era il Piz Boé e così… non siamo tornati indietro, anzi: siamo andati avanti. Ma la salita al Piz Boè è un'altra storia, che vi racconto qui.

Il panorama dalla terrazza del Sass Pordoi, con la Capanna Fassa che si vede sullo sfondo


Scheda dell’escursione:


Partenza: Canazei (funivia)
Arrivo: Canazei (funivia)
Difficoltà: E
Rifugi: Rifugio Fredarola, Rifugio Maria, Rifugio Forcella Pordoi

Tutte le immagini sono di proprietà del Signor Coso e della Malefica

venerdì 19 gennaio 2018

LA FERRATA DEGLI ARTISTI

LA VOLTA CHE “PORTIAMOCI TUTTO: FARÀ FREDDO E CI SARÀ VENTO” E POI FINIAMO NEL SAHARA

Tra tutti i regali che ho ricevuto nella mia vita ce ne è uno del Signor Coso che spicca. Perché se questo natale, per rimanere in tema, mi ha regalato un libro di Walter Bonatti e uno di Simone Moro (che sto leggendo proprio in questi giorni) più o meno un anno fa mi ha regalato la Ferrata degli Artisti. Ma dico io: dove lo trovo un altro signor coso che mi regala una ferrata?

Un tratto della Ferrata degli Artisti

L’avvicinamento alla Ferrata degli Artisti


Prima di tutto chiariamo una cosa: il regalo me lo ha fatto a gennaio, ma a fare la ferrata ci siamo andati a giugno. Aspettavamo un tempo un po’ migliore così da fare in un colpo solo mare e monti, perché la Ferrata degli Artisti, per chi non lo sapesse, è sulle Alpi Liguri e si può andare in Liguria e non farsi un tuffo in mare? Persino io che ho paura dell’acqua non ho resistito!

Comunque dato il nostro malefico piano di unire montagna e mare avevamo preso un hotel sulla costa e vi lascio immaginare la faccia che ha fatto l’albergatore quando ci ha visto arrivare con zaino da trekking, casco e chi più ne ha più ne metta al posto di infradito e telo da mare. Stonavamo un po’ con l’ambiente, lo ammetto, ma – ehi! – il Bric Agnellino era a un passo da lì.

Che poi proprio a un passo non è vero. Ché per arrivarci abbiamo dovuto prendere l’autostrada e dopo essere usciti ci è voluta quasi un’ora per raggiungere Isallo, la frazione di Magliolo da cui si raggiunge la ferrata. E per fortuna che c’erano buone indicazioni per trovarla ché almeno non ci siamo persi (e il rischio c’era). Comunque all’inizio della strada sterrata abbiamo pensato che fosse giunto il momento di chiedere indicazione: ché fidarsi dei cartelli è bene, ma non fidarsi è meglio, come ci insegnano il giro di Rocca Calascio e il Sassolungo. In realtà quello che ci preoccupava di più era proprio la strada sterrata, non tanto se quella fosse o meno la strada giusta, perché in sostanza era un rally con voragini capaci di portarci in Cina.

Siccome all’inizio della stradina c’erano due alpinisti che si preparavano a lasciare la loro bella Mito, abbiamo pensato di chiedere a loro se sapessero se rischiavamo di lasciarci la macchina a mettere anche solo mezza ruota su quell’inferno di crepacci e massi aguzzi. I due hanno guardato la mia piccola utilitaria e ci hanno assicurato che sarebbe andato tutto bene e che potevamo avventurarci con la nostra quattro ruote laddove la loro Mito non osava. Poi, già che ci stavano, ci hanno chiesto un passaggio perché dall’inizio dello sterrato al parcheggio è almeno mezzora a piedi.

Dal parcheggio ci siamo avviati lungo una carraia che in breve ci ha portato a incontrare a destra il sentiero che si inerpica nel bosco e che porta all’attacco della ferrata. Per fortuna avevamo ancora con noi i due scalatori della Mito: il sentiero è segnalato con una targa talmente piccola che noi non l’avremmo mai vista se non ci fossero stati loro.



Un tratto di salita della Ferrata degli Artisti


La ferrata degli Artisti


L’attacco è immediatamente su una paretina da dove si capisce già come è l’intera Ferrata degli Artisti: molte staffe, poca tecnica.

La parete è breve e quasi subito ci si ritrova su un sentierino esposto ma sicuro che porta alla cresta dei Balzi Rossi, cosiddetti perché la roccia laggiù è quasi tutta rossa. Da allora in poi comincia un sali e scendi costante che accompagna tutta la ferrata così come il filo di acciaio che a volte agisce più da corrimano ché da sicurezza e che a volte è persino superfluo e fastidioso.

La cosa veramente fastidiosa di tutta l’escursione, però, è stato il caldo. Noi eravamo partiti dall’hotel con nello zaino tutto il necessario per affrontare il freddo e il vento con cui poteva essere sferzato un monte a un passo dal Mar Ligure, e invece non c’era niente: niente vento, niente freddo, neppure una piccola brezza marina. Niente! Solo nebbia, caldo e una cappa soffocante sopra di noi. Praticamente dopo neanche dieci minuti che eravamo attaccati al filo eravamo già zuppi nel nostro stesso sudore, ché se non ci fossimo trovati attaccati a una parete chiunque avrebbe giurato che ci eravamo buttati in mare. Non era esattamente questo che avevo in mente quando parlavo di mare e monti…

A circa metà della ferrata c’è la sua vera attrazione, ciò per cui noi eravamo andati laggiù: il ponte. Il ponte della Ferrata degli Artisti è composto da 91 pioli per un totale di circa 40 metri di lunghezza sospesi su 50 metri di vuoto. Senza nebbia immagino che faccia la sua scena, ma anche con la nebbia non era male: era come camminare nelle nuvole. Non si vedeva niente, non si vedeva neanche la fine del ponte.

Se per caso non ci si sente di fare il ponte, però, poco prima del suo attacco c’è un sentierino a destra che porta alla valle sottostante e permette di ricongiungersi alla seconda parte della ferrata. Come sia questo sentiero non lo saprei dire: io sono andata diretta al ponte e neppure ho notato questa svolta. I due mitici scalatori invece hanno tentennato un po’ e poi sono fuggiti da lì. Ci siamo rincontrati sulla parete dall’altra parte e io ve lo dico: l’adrenalina vera arriva dopo il ponte!

Subito dopo averlo superato ha inizio un traverso orizzontale su di una parete esposta su uno strapiombo che a me non sembrava così profondo (grazie nebbia di avermi dato la sensazione di camminare a un metro da terra) ma gira voce che sia decisamente profondo. Insomma se soffrite anche solo un po’ di vertigini o avete paura del vuoto decisamente questa ferrata non fa per voi.

Concluso il traverso si supera uno spigolo grazie all’uso delle molte staffe e si inizia una salita su una scala sempre composta da staffe decisamente lunga e impegnativa. E qui sono cominciati i miei problemi. Il fatto è che il weekend precedente ero stata sul Prena e quella volta mi ero vestita per il caldo dell’Appennino e poi avevo trovato neve e clima polare. Sì, non mi so vestire: mi sembra evidente. Comunque la conseguenza di quella passeggiata al freddo e al gelo era stata una contrattura al quadricipite destro che si era sciolta proprio il giorno prima della Ferrata degli Artisti e che, puntuale come un orologio svizzero, aveva fatto il suo ritorno più o meno alla quinta staffa della suddetta scala. Quindi la situazione era che ero sospesa su uno strapiombo, impossibilitata a tornare indietro e con un quadricipite che urlava vendetta ogni volta che facevo un passo avanti. Per fortuna che sono più testarda dei miei stupidi muscoli debolucci!

Superato questo tratto particolarmente esposto, comunque, si raggiunge nuovamente una larga cresta dove il cavo metallico serve soprattutto come corrimano. Più o meno a questa altezza si incontra il murale di Mario Nebiolo che dà il nome alla ferrata. Se sei un artista abbastanza pazzo da andar a disegnare su una parete di un pianoro al termine di una ferrata come minimo meriti che la ferrata sia chiamata “degli artisti”! Da qui ancora un piccolo sforzo e alla fine si arriva sulla vetta del Bric Agnellino.




Il ritorno dalla Ferrata degli Artisti


Sulla cima del Bric Agnellino c’è il libro di via e, da giugno scorso, una barretta ai cereali e cioccolato che il Signor Coso si è scordato appoggiato in bella vista su una roccia. Si è ricordato che non se l’era mangiata circa due ore dopo, quando eravamo già tornati giù. E per fortuna che tra i due è lui quello con la memoria migliore.

A te, sconosciuto che hai trovato una barretta solitaria in cima al cucuzzolo della montagna: spero che te la sia goduta!

Comunque inizialmente la via del ritorno è ostica. Meglio rimanere con l’imbragatura addosso perché è particolarmente pendente e scivolosa quindi sfruttare il cavo metallico a disposizione può essere utile. Peccato solo che sia piuttosto sfilacciato: graffiarsi è facilissimo.

Superato, però, questo primo piccolo tratto la strada si fa particolarmente tranquilla sciogliendosi in uno zig zag in mezzo ai boschi che riporta alla carraia dell’andata. Da lì si torna rapidamente al parcheggio. Ed è stato proprio quando abbiamo visto la mia piccola macchinina che l’adrenalina è tornata al massimo. Le luci erano accese. Dopo 5 ore di ferrata le luci della macchina erano accese e noi eravamo in Liguria, in un luogo senza quasi nessun altro essere vivente oltre a noi, senza cavetti per il motore… eravamo fregati! Ci siamo avvicinati con la disperazione, abbiamo provato ad accenderla e… miracolo! La macchina che in piena autostrada era impazzita spegnendo per sempre l’aria condizionata, la macchina a cui dovevo cambiare la batteria, si accendeva ancora. Neanche se l’avessi vista farsi la ferrata sarei rimasta più stupita. Ma che ci volete fare? La mia macchina è una supereroina.



Il ponte sospeso della Ferrata degli Artisti


Scheda della ferrata:


Partenza: Isallo
Arrivo: Isallo
Difficoltà: EEA
Durata: 5 ore circa
Dislivello: 670mt


Le fotografie sono del Signor Coso. Le riprese del video e il montaggio sono miei e del Signor Coso. La musica del video è free copyright ed è presa dal sito Bensound.

venerdì 12 gennaio 2018

LA SALITA AL COL DI LANA

LA VOLTA CHE “DATTI UNA MOSSA CHE VIENE A PIOVERE” E POI LE MUCCHE TI SBARRANO IL SENTIERO

Ci sono montagne che semplicemente non sono conquistabili. O meglio, sono conquistabili e come, ma io non le ho conquistate così diciamo che non sono conquistabili in toto e chiudiamola lì. Insomma lo so, per esempio, che tantissime persone arrivano sulla cima del Col di Lana, ma quando ci ho provato io non ci sono riuscita quindi… il Col di Lana è inconquistabile: più dell’Everest! Non mi convincerete altrimenti.


Le valli di rocce che portano al Col di Lana dal Rifugio Pralongià

La partenza da Corvara


Per essere precisi sul perché il Col di Lana sia stato così ostico per me premetto che questa escursione l’ho fatta il giorno dopo il Sassongher e forse ero un po’ stanca. E in più minacciava pioggia. Insomma non era il giorno giusto per andare in trincea. Non che ci sia un giorno particolarmente giusto per le trincee. Almeno non credo.

Per arrivare al Col di Lana, per altro, ci sono un bel po’ di vie. Avete presente il detto “tutte le strade portano a Roma”? Ecco! Non so se tutte le strade portino davvero a Roma, ma comincio a credere che tutti i sentieri portino al Col di Lana.

Noi per arrivarci ne abbiamo scelto uno piuttosto lungo che mi ha totalmente sfiancato. Siamo partiti dal campo da golf di Corvara con una seggiovia a quattro posti e siamo saliti fino al Rifugio Punta Trieste (2010mt) e almeno fino a qui ci siamo risparmiati un po’ di passi perché il giro di suo di passi ne richiede. Piccola parentesi sulle seggiovie: ce ne sono varie che partono dal campo da golf, ma d’estate ce ne dovrebbe essere attiva solo una: la seggiovia Pralongià.

Vicino al Rifugio Punta Trieste c’è un delizioso albero di legno con delle civette legno in un campo di legno… ah! No! Scusate, mi sono fatta prendere la mano: il campo era d’erba, ma le civette erano di legno, tutte di colori diversi, giuro. Deliziose!

Da qui, comunque, con un piccolo tratto di strada in salita si raggiunge in pochi minuti il secondo e ultimo rifugio del giro: il Rifugio Pralongià (2109mt). Di fronte a lui c’è una chiesetta e un paio di panchine dove io ovviamente mi sono subito fermata per potermi togliere i troppi vestiti che avevo addosso. A mia difesa, le seggiovie sono mezzi di trasporto freddi. 

Il panorama che si apre appena ci si allontanati dal Rifugio Pralongià verso il Col di Lana

La salita al Col di Lana


Dal Rifugio Pralongià ci si avvia lungo un sentiero nel prato e si passa accanto a una porta. No, non ho sbagliato a scrivere: nel prato c’è una porta. Solo la porta. Una porta che non porta da nessuna parte. Perdonate il gioco di parole, non ho resistito.

Percorrendo il sentiero n. 23, per altro, si passa accanto a un dirupo suggestivo da vedere, forse un po’ meno da esperire nella pratica. Cioè, non consiglio a nessuno di faci un salto dentro. Lo dico perché al Signor Coso e a me è sorto il dubbio che quel punto particolare dell’escursione possa diventare in qualche modo un po’ pericoloso durante l’inverno. Online ho trovato solo informazioni sulla facilità del percorso (in effetti reale) e sulla possibilità di percorrerlo sia d’estate che di inverno senza problemi e io personalmente l’ho fatto solo in estate, quindi prendete con le pinze quello che dico, però per come era il terreno abbiamo pensato che sia possibile che in quel punto si formino delle cornici. Ossia che sia possibile che in quel punto la neve si condensi facendo sembrare che il bordo sia un po’ più in là di quanto in realtà non sia. E quindi, nel caso, camminando sopra a queste cornici si rischierebbe veramente molto: il salto di prima, insomma. Se ci andate però d’estate il problema non si pone.

Raggiunta la Sella Sief si abbandona il sentiero n. 23 per prendere a sinistra il sentiero n. 21/a. Da qui, dopo un breve tratto di erbetta e fanghiglia, comincia un andirivieni di vallette rocciose sormontate a sinistra dal massiccio Settsass. Cosa importante da sapere di queste valli: non finiranno! Voi crederete che possano finire, ma non è così. Ci sarà una valle 1, valle 2, valle 3, valle 4, valle 5, valle 10, valle 15, valle 2000, valle 10.367.905 e così via. Sì, può essere che sto sbagliando i numeri: a un certo punto ho perso il conto, ma probabilmente ho ragione. Insomma questo sali e scendi di valli rocciose è infinito: gran parte dell’escursione si svolge proprio qui.

Per aiutarvi per altro a immaginare la scena di me che procedo in queste conche di massi enormi, tre volte più larghi di me e un paio di volte più alti, vi farò una similitudine piuttosto calzante: io avanzavo come Gollum. Ce lo avete presente Gollum? La sua eleganza? Il suo procedere sinuoso su due piedi? Ecco! Ci mancava solo che mi mettessi a tossire gracchiante “Tesssoro! Tesssoro! Il mio tesssoro!” ed ero identica, forse con un po’ più di capelli… il grigiore invece c’era tutto. Il Signor Coso invece zampettava più avanti, rapido, vagamente più stabile, forse meno gracchiante con un passo che ricordava un po’ più, da lontano però, una capretta. Ecco: eravamo Gollum che va a spasso con una capretta. Che immagine oscena!

Usciti da queste vallette, probabilmente passando per uno squarcio dello spazio-tempo altrimenti non si spiega come abbiamo fatto a fuggirne, siamo arrivati su un sentiero nuovamente erboso che ricalca una classica traccia montanara e che porta dritti per dritti a una croce e a un recinto delle mucche. Appuntatevi questa parola, “mucche”, ci tornerà utile più tardi.

A questo punto si comincia la salita del vero e proprio Col di Lana che è anche noto come Col di Sangue perché più o meno 8000 soldati sono morti lassù durante la Prima Guerra Mondiale. L’evento forse più noto che è successo lì è la deflagrazione di una mina di circa cinque tonnellate di dinamite nell’aprile 1916 che ha lasciato un gigantesco cratere.

A circa metà monte iniziano le trincee e io ero andata laggiù solo per vederle. Nonostante stessi per morire dalla fatica sono riuscita a trascinarmi fino alle prime e ci ho passeggiato un po’ dentro quindi posso dirvi che le trincee sono strette, umide, fredde e piene di insetti.

Dirupo verde e profondo che si apre sul lato della sentiero 23 per andare al Col di Lana

Il ritorno a Corvara


Dall’inizio delle trincee a quanto dice il Signor Coso, che era già stato lì, ci vuole circa mezzora per arrivare in vetta dove si trova una targa e alcuni oggetti dei soldati, tipo barattoli e scarponi. Purtroppo minacciava pioggia e io ero stanchissima quindi non abbiamo superato la metà del monte, ma abbiamo fatto dietrofront e siamo tornati verso casa.

Avevamo piuttosto fretta perché davvero il cielo sembrava promettere di rovesciarci in testa un oceano, solo che neanche avevamo cominciato a tornare indietro che sono comparse loro: le mucche! Se ne stavano in mezzo al sentiero e sui prati intorno e non sembravano intenzionate a spostarsi. E come ho già detto per la vetta del Sattel-Hochstuckli: con le mucche non si discute. E quindi via uno zig zag tra le loro cacche e le loro code per riuscire a superarle e “non guardarle negli occhi” ché non si sa mai che la prendano come una sfida. Maledette mucche! Siete sempre voi!

Comunque siamo riusciti a superarle e a quel punto lo strappo nel tessuto spazio-temporale si è riaperto per noi e siamo precipitati di nuovo nelle vallette di rocce. E giù a farle al contrario e sta volta Gollum e la capretta stavano quasi correndo via.

Miracolosamente siamo riusciti a raggiungere il Rifugio Pralongià un attimo prima che si scatenasse il cugino dell’uragano Katrina. Noi per fortuna a quel punto eravamo già belli accomodati dentro a pranzare. Ma prima o poi dovevamo anche riprendere la seggiovia. Così dopo un po’, in un momento di calma, ci siamo messi addosso le nostre mantelle (e io mi sono digievoluta da Gollum a Batman) e ci siamo avviati al Rifugio Punta Trieste. E da lì, beh, è storia: ché non serve mica essere Messner per prendere una seggiovia e tornare a casa.

La croce ai piedi del Col di Lana che commemora i caduti della Prima Guerra Mondiale

Scheda dell’escursione:



Partenza: Corvara (funivia)
Arrivo: Corvara (funivia)
Difficoltà: E
Dislivello: 450mt
Durata: 6 ore circa
Sentieri: 23, 21/a 

Rifugi: Rifugio Punta Trieste, Rifugio Pralongià

Tutte le foto sono state scattate da me e dal Signor Coso

venerdì 5 gennaio 2018

IL GIRO DEL SASSOLUNGO

LA VOLTA DEL “NO, NON MANCAVANO 45 MINUTI MALEDETTO TU, CARTELLO, E TUTTI I CARTELLI TUOI PARENTI!”

Certi monti nascono con dei gemelli, che però non gli somigliano per niente. Si fanno compagnia nei millenni. O almeno io certi monti li ho sempre immaginati un po’ così; come ad esempio il Sassopiatto e il Sassolungo.

Vista del Sassolungo

La partenza da Col Rodella


La mia prima estate sulle Dolomiti, come ho già raccontato, si aprì con il Sassopiatto e si concluse con il Sassolungo che, in qualche modo, è il contrappasso del Sassopiatto. Tanto che per arrivare ad attaccare il giro del Sassolungo il Signor Coso e io abbiamo comunque preso da Campitello la funivia per il Col Rodella.

Per essere onesti non è che fosse proprio obbligatorio prendere la funivia. Se si vuole evitarla per, mettiamo il caso, problemi di vertigini (ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale, giuro che non sto parlando del Dottor Uka e di Wiiiiiwoman!) si può raggiungere Passo Sella con un autobus. Ma non soffrendo di vertigini, noi, abbiamo pensato di fare il giro per bene.

Così, una volta raggiunto il Col Rodella e ignorata l’omonima ferrata, ci siamo avviati per il famoso discesone spacca-ginocchia di sei giorni prima. Alla Forcella Rodella, però, abbiamo trascurato il sentiero a sinistra e via a destra fino a raggiungere Passo Sella.

Qui abbiamo incontrato Wiiiiiwoman e il Dottor Uka che, per motivi misteriosissimi, avevano raggiunto Passo Sella comodamente seduti sul sedile di un pullman. E sempre da qui il Signor Coso ed io siamo saliti sull’ovovia a due posti che in pochi minuti porta al Rifugio Demetz (2685mt). Ancora una volta, per motivo ignoto, il Dottor Uka e Wiiiiiwoman hanno rifiutato la funivia e hanno preso subito la via per la Città dei Sassi. Arrivati a Passo Sella, infatti, si può decidere se fare il giro in senso orario o in senso antiorario. Il Signor Coso e io lo abbiamo fatto in senso orario quindi della Città dei Sassi per il momento non si parla.


Vista dalla Forcella del Sassolungo

Il giro del Sassolungo


Se si fa trekking in Val Gardena è praticamente un dovere morale fare il giro del Sassolungo. Quindi, in qualche modo, è un dovere morale passare davanti al Rifugio Demetz. Sarebbe, però, un dovere morale del Rifugio Demetz avere sempre un krapfen pronto. Un buon, panciuto, krapfen alla marmellata di albicocche… E invece non c’era! Dirò solo questo: non c’era!

Il rifugio riposa a pochi passi dalla Forcella del Sassolungo (2679mt) che si stringe tra imponenti pareti verticali. Superatala e affrontati i ripidi gradoni di pietra e il successivo ghiaione fisiologicamente scivoloso come sapone (no! Non sono caduta! Ma per chi mi avete preso? Mica faccio tutte le escursioni col sedere per terra!) siamo riusciti a raggiungere, battendo un po’ i denti per il freddo di quel tratto di sentiero, il Rifugio Vicenza (2256mt). A questo punto la mia speranza per un krapfen doveva essere ormai defunta perché non ricordo di averlo cercato.

La peculiarità del Rifugio Vicenza è il balconcino che si apre sulla vallata circostante e che vale tutto il freddo e il buio del canalone precedente. Qui il Signor Coso giura ci sia un tetto verde, ma io non ho capito di che tetto parli e soprattutto come faccia a ricordarsi il suo colore quindi prendete questa informazione per quello che è: un gigantesco “meh” da parte mia (errata corrige: il Signor Coso parlava del tetto del rifugio, ma poi ha controllato su internet e appare evidente che sono le finestre verdi, non il tetto. Quindi confermo: meh).

Poco distante dal rifugio si apre un bivio: andando a sinistra ci si ricongiungerebbe con il Sassopiatto, mentre a destra si prende il sentiero n. 526, ovvero la Via Stradal, che aggira il Sassolungo. Per amor di correttezza vi informo che abbiamo preso questo sentiero, ma c’era un cartello che giurava che da quel bivio si potesse raggiungere il mare. Davvero! Non specificava quale mare, ma a questo punto poteva anche essere il Mar Rosso per quanto ne so io. Prima regola da ricordarsi quando si è sul Sassolungo: non fidarsi dei cartelli! Vi venderebbero pure per meno di trenta denari… d’ottone!

Abbandonato il Rifugio Vicenza la strada per il successivo e ultimo rifugio è lunga e variegata. Si passa da un pianoro ghiaioso, a un tratto di sentiero in un boschetto, a rocce, a neve, a ghiaia di nuovo e persino a ripide scalinate di pietra. C’è anche un suggestivo momento in cui si cammina su una via stretta con un piccolo dirupo a sinistra e la parete di roccia a destra e nel frattempo rivoli d’acqua sulla parete e sotto i piedi (e a volte anche un po’ in testa).

Però, appunto, la via è lunga e i cartelli infami. Davvero: Giuda era più gentile e affidabile! Diciamo solo che quegli ignobili – perché non è stato solo uno: si erano messi d’accordo quei meschini! – hanno cominciato a giurare che mancasse poco al rifugio, più o meno 45 minuti. E quando hanno cominciato a dirlo era ormai da ore che noi camminavamo e il Rifugio Comici ha la particolarità che si vede da lontano e sembra così vicino che alla fine ci abbiamo creduto che i cartelli non mentissero.

I cartelli mentivano! Mentivano spudoratamente. Della serie che loro dicevano 45 minuti e invece sono stati più o meno 180. Che se stessimo parlando di angoli sarebbero piatti non acuti. Ora, sono passati un po’ di anni da quella mattina in cui io quasi persi il senno a causa di quei malefici, infingardi pezzi di legno menzogneri per cui potrebbe darsi che li abbiano corretti, ma voi nel dubbio non fidatevi troppo.

Alla fine, comunque, siamo arrivati al Rifugio Comici (2153mt) dove abbiamo ritrovato Wiiiiiwoman e il Dottor Uka che mentre noi camminavamo… niente! Poltrivano lì aspettandoci. Il rifugio mette persino a disposizione dei tappetini per farlo quindi posso capire la loro scelta.


La vista del Rifugio Vicenza dal sentiero di avvicinamento

Il ritorno a Campitello


Dopo un pranzo soddisfacente, ma decisamente troppo costoso per i miei gusti e aver dribblato il preside della nostra scuola superiore (per fortuna che eravamo già tutti diplomati!) che incredibilmente se ne stava al Comici a mangiarsi un piatto di pasta, ci siamo riavviati verso casa. Finalmente, quindi, anche il Signor Coso e io abbiamo percorso la via della Città dei Sassi, un monumento naturale fatto di rocce e alberi.

In circa un’oretta, un’oretta e mezza siamo tornati a Passo Sella. Qui ci siamo divisi un’altra volta: il Dottor Uka e Wiiiiiwoman hanno nuovamente scelto, chissà perché, di aspettare mezzora la navetta invece di affrontare la funivia, mentre il Signor Coso e io abbiamo rifatto la strada all’inverso. Siamo tornati alla Forcella Rodella, abbiamo risalito il discesone spacca-ginocchia, che sta volta era un salitone un po’ meno spacca-ginocchia, e ci siamo fatti riportare a Campitello dalla funivia del Col Rodella. E ci tengo a dirlo: siamo arrivati primi! Quindi, a tutto diritto, siamo stati i primi a farsi la doccia. Vedi che ci si perde a soffrire di vertigini. Ah, no, cioè non volevo dire che loro… va beh!


Panorama della Città dei Sassi sul Sassolungo

Scheda dell’escursione:


Partenza: Campitello (funivia)
Arrivo: Campitello (funivia)
Difficoltà: E
Durata: 6 ore e mezza circa
Dislivello: 540mt 

Sentieri: 526
Rifugi: Rifugio Toni Demetz, Rifugio Vicenza, Rifugio Comici


Tutte le foto sono del Signor Coso e del Dottor Uka