venerdì 29 giugno 2018

LA SALITA ALLE TORRI DI CASANOVA

LA VOLTA CHE… "SCUSATE MA DOVE DIAMINE È LA FERRATA E QUANDO ARRIVA IL SOCCORSO ALPINO A SALVARMI?"

Sono stata sconfitta! È ufficiale. Sono traumatizza, completamente a pezzi, con la dignità in frantumi. Ebbene sì: un’escursione mi ha devastata. Ma non un sentiero alpinistico qualunque, ma la salita alle Torri di Casanova, ossia l’estrema propaggine occidentale della dorsale del Monte Prena. E visto che a conti fatti è stato il Prena, il mio monte appenninico preferito, a farmi questo, sono mortalmente ferita nei sentimenti. Quindi quest’escursione provo a raccontarvela dal punto di vista del Signor Coso perché dal mio sarebbe solo un “tu quoque Prena, filii mi? Pecché? Pecchééé?” (prego, usare tono iperacuto e terribilmente melodrammatico quando lo leggete).

La cresta dalla sella delle Torri di Casanova

La partenza da Piano di Pietranzoni


In principio era il buon umore. La salita alle Torri di Casanova prevede una breve ferrata che sulla carta non sarebbe dovuta essere troppo difficile. Ora, noi avevamo già fatto una ferrata in Liguria (la Ferrata degli Artisti) e tre in Trentino (vi suonano familiari la ferrata del Piccolo Cir, la Tridentina e la ferrata del Col Rodella), ma in Abruzzo non ne avevamo ancora fatta nessuna; quindi eravamo in brodo di giuggiole all’idea.

Così, armati di entusiasmo, buon umore e attrezzatura, siamo partiti di buon’ora da Roma e verso le otto eravamo poco oltre il bivio tra Campo Imperatore e Castel del Monte, là dove si lascia la macchina in uno slargo sulla destra in corrispondenza con dei cartelli informativi. E davanti a noi, d’un solo tratto, si dipanava l’infinito mare verde di Piano di Pietranzoni (1660m).

Se credete che l’oceano sia spaesante provate ad andare al Piano di Pietranzoni: qui sì che la labirintite fa festa. In questa immensità erbosa non si vedeva lo straccio di un sentiero nonostante mappa e GPS (sì lo stesso GPS ubriaco del Monte di Cambio) giurassero che il sentiero n. 230A fosse proprio lì davanti a noi. E allora via a camminare a caso in mezzo all’erba. E mentre io ancora ero tutta gioviale e saltellavo in giro manco fossi Heidi con l’agnellino, il Signor Coso cominciava a farsi venire qualche dubbio su quello che stavamo facendo: ma non era per caso che ci stavamo già perdendo? E magari avesse continuato ad averlo quel dubbio! E invece no: a un certo punto siamo finiti in un ampio ghiaione che in poco tempo ci ha condotto fino a un canalone con tanto di fiume-scolo del ghiacciaio che ci scorreva dentro e zac! Il giusto presentimento era svanito dalla mente del Signor Coso. E quindi niente: avremmo potuto salvarci e invece siamo andati verso la nostra fine. Povera mente a cui nessuno crede! Da oggi in poi temo che si sia giustamente e tristemente guadagnata il nome di Cassandra.


Cartello turistico delle cime montuose dal Piano di Pietranzoni

La salita alle Torri di Casanova per la via CAI Penne


Per comprendere l’altalena bipolare a cui il Signor Coso è stato sottoposto durante la salita delle Torri di Casanova (io invece ho semplicemente preso la china di una depressione nera) bisogna che sappiate che noi pensavamo di star per salire dalla via Familiari che sul web viene definita “divertente ma non difficilissima”, “il limite estremo di ciò che è percorribile con i bambini”. Invece, in realtà, quella che stavamo per intraprendere era la via CAI Penne che sul web è descritta come un susseguirsi di canaloni che col cattivo tempo si possono facilmente tramutare in “trappole mortali”. Non sto scherzando: c’è scritto letteralmente “trappole mortali” su alcuni siti…

Il primo di questi canaloni è quello del fiume-scolo che prevede anche alcuni tratti di arrampicata su piccoli massi e paretine di un paio di metri. Il che, ovviamente, rende tutto molto avventuroso e a suo modo fico. Motivo per cui Cassandra in quel momento era più entusiasta di un tifoso del Celtic mentre canta You’ll never walk alone. Era tipo impazzita e in effetti il Signor Coso aveva un bel sorriso stampato sul viso.

Più si sale di quota, però, più questi benedetti canaloni diventano difficili. In sostanza la via CAI Penne è un incrocio tra i gironi dell’inferno e i livelli di Super Mario. Nel nostro caso il primo mostro era un blocco di neve che se ne stava bello spaparanzato su tutto il canalone e ci si frapponeva davanti stile muretto gandalfiano “tu non puoi passare”. Probabilmente il blocco era anche un gentile signor blocco di neve che ci voleva solo proteggere da quello che veniva dopo, ma noi non lo abbiamo capito e invece di essere grati lo abbiamo preso a calci finché non siamo riusciti a scavarci un gradino per poterlo scavalcare. A questo punto Cassandra stava già fuori di sé per l’entusiasmo avventuroso con una bottiglia di champagne in una mano e il microfono del karaoke nell’altra per cantare tutto il repertorio degli Oasis (sì, a Cassandra piacciono gli Oasis, nessuno è perfetto).

Dopo questo primo ostacolo, che per il Signor Coso è stato più divertente che pericoloso (mentre io già redigevo mentalmente il mio testamento), la neve è stata una compagna presente, ma non costante che ci ha costretto a giochi di equilibrismo che hanno avuto l’unico effetto di fomentare ulteriormente la già esaltata Cassandra. In ogni caso, comunque, la presenza continua di segnavia (e la totale assenza di possibili svolte) rassicuravano alquanto sulla direzione che avevamo preso e non ci facevano per niente supporre che in realtà fossimo sulla strada sbagliata. Il dubbio c’è venuto quando a un certo punto siamo arrivati in uno slargo e ci siamo trovati di fronte segnavia in ogni dove.

Avete presente quelle classiche scene delle tre porte identiche davanti a voi e voi ne dovete scegliere una? Ecco, noi avevamo tre segnavia e ne dovevamo scegliere uno. Il primo ad arrivare e scegliere è stato l’Amico Esperto che, col suo istinto da alpinista navigato, ha imboccato un canaletto che in poco tempo si è trasformato in una morsa assassina dove si è quasi incastrato. Nel frattempo, però, era arrivato il Signor Coso che, vedendo l’amico in un vicolo cieco, ha imboccato sicuro la strada a destra seguendo una grossa freccia rossa. La sicurezza è andata a farsi friggere velocemente però, perché da che prima saliva bello dritto si è rapidamente trovato, senza neanche accorgersene subito, prima a quattro zampe e poi attaccato a una parete verticale con la stessa difficoltà a tornare giù dell’Amico Esperto. È qui che Cassandra ha ricominciato ad avere qualche dubbio su quel che stavamo facendo. E chi le può dar torto? L’unica rimasta libera di muoversi e di controllare l’ultima via ero io. Al posto suo anche io mi sarei preoccupata un po’. In realtà la via a sinistra era un sentiero tranquillissimo, ma che procedeva in chiara discesa e che quindi non ci avrebbe mai portato in vetta: era un altro buco nell’acqua. 


Roccia a forma di pollice vista dalla via CAI Penne verso le Torri di Casanova

E così stavamo lì, in questo slargo, con me seduta sulle rocce finalmente a recuperare fiato dopo la scarpinata faticosa di poco prima, l’Amico Esperto impegnato in una lenta e faticosa ritirata, il Signor Coso culo a terra per tornare giù senza precipitare e Cassandra decisamente meno entusiasta di poco prima. È a quel punto che tre abruzzesi sono comparsi da un punto ignoto e ci hanno rivelato che no, quel sentiero infuoca-polpacci non era la via Familiari, ma la via CAI Penne, di cui noi ignoravamo totalmente l’esistenza, e che per altro stavamo percorrendo l’anello delle Torri di Casanova al contrario: salivamo dalla discesa e saremmo scesi dalla salita. Ora, gentili signori abruzzesi, io quel malefico sentiero l’ho fatto in salita e mi chiedo: ma come vi viene in mente che il verso giusto sia in discesa? Ma l’avete notata la roccia franosa e friabile che vi circonda e su cui camminate? Diamine! A calcetto saponato si scivola di meno! 

Ad ogni modo i tre abruzzesi, decisamente più esperti e più attrezzati di noi, sono stati così cortesi da improvvisarsi in un sol colpo re magi e stella cometa e indicarci la strada. A quanto pare c’era una quarta porta, quella da cui provenivano loro, ed era quella giusta. Peccato solo che da lì si arrivasse a un canalone strapieno di neve che andava fatto, a loro dire, con la piccozza. Indovinate cosa non avevamo noi?

Arrivati al canalone, in effetti, la situazione richiedeva un po’ di inventiva. Avevamo però con noi il famoso cordone da 70 metri che più di una volta ci eravamo portati appresso per allestire una discesa in corda doppia e una serie di attrezzatura come secchiello, piastrina, dadi, kevlar e imbrago con cui, in relativamente poco tempo, abbiamo allestito una sosta più o meno sicura. L’adrenalina ha cominciato a scorrere a frotte nel Signor Coso. Con una lucidità e una calma sorprendente ha fatto da sicura prima all’Amico Esperto e poi a me per farci attraversare il canalone sulle tracce lasciate dai re magi. A quel punto toccava a lui. Affidandosi alla nuova sosta realizzata dall’altra parte dall’Amico Esperto ha affrontato la neve. Cassandra era quieta: non preannunciava morte. Al primo passo il piede gli è scivolato. Non esattamente un buon modo per cominciare, ma Cassandra forse dormiva o era in coma o che so io perché non si è spaventata e il secondo passo è stato più fermo del primo e così via. E il Signor Coso procedeva anche con una certa eleganza, chiedendo corda con calma come se stesse chiedendo permesso in metro. Non come me che, un attimo prima nella stessa situazione, gracchiavo come una pazza “CORDA! CORDA! CORDAAA!”.

A questo punto mi piacerebbe dirvi che da qui in poi, senza ulteriore fatica o imprevisti, siamo arrivati in vetta, ma la realtà è che ci siamo di nuovo persi. O almeno lo supponiamo visto che in poco tempo ci siamo ritrovati nell’ennesimo canale sdrucciolevole senza più traccia di sentieri o segnavia. È qui che, mi vergogno ad ammetterlo, ho avuto un totale crollo mentale e, ridotta a procedere praticamente a carponi, ho completamente perso il senno e mi sono testardamente seduta sull’ennesima roccia friabile e ho sentenziato che volevo il soccorso alpino. In quel momento l’Amico Esperto era troppo avanti per accorgersene e vicino a me c’era solo il Signor Coso che era più incline a spronarmi ad andare avanti che ad accondiscendere ai miei capricci. Io non sapevo che numero si dovesse chiamare per avvertire il soccorso alpino (è vergognoso! Non fate come me!) e non sapevo neanche dove mi trovassi (in quel momento non mi era neanche chiaro che quelle verso cui procedevamo si chiamassero Torri di Casanova), quindi senza l’alleanza di uno dei miei due compagni non avevo speranza di farmi soccorrere e, d’altro canto, anche il ritorno era ormai fuori questione superato il malefico canalone.

Così alla fine sono andata avanti mentre il Signor Coso, preoccupato e un po’ confuso, si interrogava mentalmente se fosse il caso di parlare o tacere, correre avanti verso l’Amico Esperto o restare indietro con me. Tanti quesiti, lo devo ammettere, su cui è meglio non soffermarsi quando, come noi, ti ritrovi a circumnavigare una roccia sporgente sopra un canalone abbracciando con sommo amore tutti gli speroni a disposizione. Quesiti, d’altro canto, che non hanno una buona risposta neppure in città, al livello del mare, figurarsi in montagna a 2000 metri di altezza.

Dopo il panico da circumnavigazione di roccia, comunque, abbiamo raggiunto in poco tempo la cresta dove ci siamo ricongiunti con la Via del Centenario. Qui, con suo sommo sgomento, Cassandra ha dovuto constatare che si era sbagliata: niente ferrata laggiù, ma solo altri tratti rocciosi, quasi dolomitici, di II grado con vecchi chiodi dismessi infilati nella roccia. In poco tempo, però, abbiamo raggiunto a sinistra quella che io ho creduto essere la vetta di una delle torri dove tre romani come noi se ne stavano comodamente spaparanzati a bersi un Ichnusa. Per essere onesti, in realtà, abbiamo raggiunto la sella sotto la vetta, ma questo lo abbiamo scoperto solo il giorno dopo, per la “felicità” del Signor Coso e dell’Amico Esperto (io mi sono accontentata di essere tornata a casa intera, vetta o non vetta). Che poi non ho neanche capito se quella sotto cui siamo passati ignorandola bellamente sia la torre più alta, ossia la vetta di 2362m, ma non devastateci ulteriormente: diciamo che lo era.


Vista della sella delle Torri di Casanova dal Sentiero del Centenario

Il ritorno dalle Torri di Casanova per la via Familiari


I tre romani erano stati più furbi di noi: erano saliti dalla via di salita e sarebbero anche ridiscesi da lì. Il che gli permetteva di assicurarci che il peggio era passato e che la via Familiari, che finalmente avremmo intrapreso, era decisamente alla portata di tutti. Cassandra ormai, però, era malfidata: non gli credette. Ve lo dico subito: non mentivano, avevano ragione loro.

La via ferrata Gianni Familiari (2276 m circa) è poco distante dalla vetta e fin dal primo poderoso tratto verticale si mostra subito maltenuta. Il primo tratto non presenta un cavo di acciaio, ma una corda alpinistica. Nonostante faccia effetto vederlo dal basso non è certo questo primo tratto a costituire il problema di questa breve, brevissima ferrata. Anzi, dopo essersi issati lungo la fune ed essersi arrotati fino a ridiscendere per la successiva scaletta si può godere di una fessura naturale nella roccia dove il vento si incanala a tal punto da diventare suono, un suono tipo flauto stonato intento a suonare, come tutti i flautisti alle prime armi, Viva viva l’olio d’oliva.

È il secondo tratto della ferrata Familiari che si rivela più ostica. La verticalità rimane elevata e la discesa si fa difficile, al punto che il Signor Coso non riusciva più a turnicare e developparsi. Stava lì come un pesce lesso a cercare un modo per inforcare la scaletta. E provatevelo a immaginare un pesce a 2000 metri, senza acqua e senza gambe (in fondo è un pesce…) che cerca di inforcare una scaletta: non riesce molto bene.

Superate le difficoltà del pesce lesso e la mia sensazione di vuoto e terminata la ferrata si procede per un sentiero in quota fino a raggiungere la Forchetta di Santa Colomba (2250 m circa). Qui si abbandona il Sentiero del Centenario e si inizia finalmente a scendere prima nell’ennesimo canale ghiaioso ripido e scosceso e poi, a quota 2050m circa, in un largo dosso erboso dove, dopo un paio di ore di discesa abbiamo imboccato un sentiero segnato, che poi sarebbe il sentiero n.230, fino ad arrivare alla macchina sfiniti, tesi, ma entusiasti (tutti a parte me) per l’avventura appena vissuta.

Un ultimo appunto su questo trekking nel Gruppo del Gran Sasso inaspettatamente più complicato di qualsiasi cosa avessimo fatto fino a quel momento e inquietantemente più caldo di quanto il meteo avesse promesso: Cassandra aveva ragione fin dall’inizio. Ebbene sì, saremmo dovuti andare a sinistra nel Piano di Pietranzoni e imboccare fin dall’inizio questo sentiero segnato che poi, a conti fatti, c’era e solo noi non notavamo, ma a quel punto poi che avremmo fatto? Saremmo riscesi dalla via CAI Penne? Non c’è niente da fare, Cassandra: porti sfiga in ogni caso!


Vista del panorama dolomitico delle Torri di Casanova

Scheda dell’escursione:


Partenza: Piano di Pietranzoni (a piedi)
Arrivo: Piano di Pietranzoni (a piedi)
Difficoltà: II grado (Via CAI Penne), EEA (Via Familiari)
Durata: 8 ore e mezzo circa
Dislivello: 850m
Sentieri: 230, 230A


Le fotografie sono mie e del Signor Coso

venerdì 15 giugno 2018

LA DISCESA IN CORDA DOPPIA SUL MONTE VIGLIO

OSSIA COME DIVENTARE 007 E IL CAPITAN FINDUS IN UN COLPO SOLO

Vi rivelo un segreto: sono Batman!
No, scherzo: quello è Sheldon. Io sono solo 007 e il Capitan Findus. O meglio il Signor Coso è uno 007 findussoso, io sono quella che si fa rinsegnare ogni volta da capo come si fanno tutti i nodi e, tra un po’, persino come si mette l’imbrago. Ebbene sì: non riesco proprio a imparare definitivamente come allestire una discesa in corda doppia. Magari però riesco a farlo imparare a voi raccontandovi la volta in cui l’ho fatta sul Monte Viglio.



Scritta sulla roccia per la via per il Monte Viglio


L’escursione sul Monte Viglio


L’autunno scorso, come ultima escursione dell’anno, il Signor Coso e io, insieme con un paio di amici, abbiamo deciso di andarci a fare un giro sul Monte Viglio (2156m), la cima più alta dei Monti Càntari, a cavallo tra la provincia di Frosinone e quella dell’Aquila.

Partiti presto da Roma, più o meno intorno alle 6/6.30, siamo arrivati in meno di due ore nei pressi della cittadina di Filetto che abbiamo superato prendendo la strada per Capistrello e per Campo Staffi per raggiungere così l’attacco dell’escursione: uno slargo dove parcheggiare in corrispondenza con il Valico Serra Sant’Antonio (1608m). Piccolo avvertimento però: questa strada è praticamente solo un cumulo di tornanti torci-budella. Roba che neanche le montagne russe sono così cattive e quando siamo scesi dalla macchina avevamo tutti un inquietante colorito verdognolo. E quando dico tutti intendo tutti: persino l’amico che guidava! 

Proprio dal salvifico punto dove è possibile parcheggiare ha inizio la strada sterrata quasi pianeggiante che si immerge prima in un bosco (che d’autunno si incendia che tra un po’ neanche il New Hampshire) per poi precipitarsi, dopo il bivio di Fonte Moscosa dove si gira a sinistra, in una vallata pratosa

In relativamente poco tempo, su questo sentiero che solo dopo il bivio decide di ricordarsi che siamo sugli Appennini e non nella Pianura Padana e comincia lievemente a tramutarsi in salita, si raggiunge Val Rovereto, una terrazzina facilmente riconoscibile grazie alla grande croce e alla statuina della Madonna che riposano nel punto più panoramico dove godersi la vista del massiccio del Gran Sasso.


Sentiero nel bosco autunnale per il Monte Viglio

Qui, dicevamo, c’è una croce e una Madonnina. È la vetta? Direi di no, purtroppo. Dalla vetta del Viglio si vede il gruppo del Velino-Sirente, non del Gran Sasso. Tanto per farla più chiara: i prati del Sirente? Sì, si vedono. Prena o Camicia? No, non si vedono. Chiaro ora? Quindi vi è chiaro che non eravamo in vetta vero?! Bene, anche a noi perché in vetta non ci siamo mai arrivati

Purtroppo, nonostante la salita al Monte Viglio sia un’escursione di media difficoltà e di sole 4 ore più o meno, i tornanti torci-budella di prima ci avevano veramente… beh! torto le budella e cos’altro avrebbero potuto fare? Uno dei nostri amici quasi non stava in piedi per la nausea che gli era venuta. Così, dopo aver tentato la salita erbosa a destra della Madonnina per circa mezzo chilometro ci siamo arresi alla nausea e il nostro amico si è buttato a terra.

Mentre il nostro amico moriva lentamente, però, il Signor Coso, io e l’Amico Esperto eravamo freschi come una rosa, più o meno, e quindi che fare? Dopo il tragico flop del Monte di Cambio (LINK) in cui ci eravamo portati dietro una corda di 70 metri per provare la discesa in corda doppia senza però farla, l’Amico Esperto ci aveva riprovato: avevamo con noi il cordone e tutta l’attrezzatura perfetta per farlo e quindi, trovato un buon punto… via alla corda doppia!



Segnavia sul sentiero per la vetta del Monte Viglio


Cosa serve e come si fa la discesa in corda doppia


Cosa serve per allestire una discesa in corda doppia? 
  • Corda di 70 metri; 
  • Imbrago; 
  • Quattro moschettoni; 
  • Corda di circa 3 metri o daisy chain 
  • Piastrina gigi 
  • Cordino di kevlar 
  • Forbici dalla punta arrotondata… ah! No! Quello è art attack! 
Individuato un buon punto dove allestire la corda doppia, nel nostro caso un solido sperone che non ha ceduto sotto forti strattoni, se non ci sono già gli attacchi ad hoc per far scorrere la corda si deve allestire una soluzione per evitare che la corda scorrendo contro la roccia si logori. Si posiziona perciò intorno alla roccia un cordino di kevlar o una fettuccia dove va montata una maglia rapida o un moschettone nel quale scorrerà la corda.

Ricordatevi, inoltre, di chiudere entrambi gli estremi della corda doppia con un nodo cappuccino in modo da essere sicuri di non precipitare nel vuoto: se anche doveste raggiungere la fine della corda e restare nel vuoto questi nodi vi salveranno la vita.


Croce e statua della Madonna a Val Rovereto, sulla via per la vetta del Monte Viglio

Indossato l’imbrago legate la corda di 3 metri o la fettuccia con un nodo a otto e create due longe di lunghezza differente. Al termine di entrambi i bracci realizzate ancora una volta dei nodi a otto dove inserire i moschettoni. Fate attenzione che il moschettone del ramo corto non superi la testa e quello del ramo lungo sia a una distanza raggiungibile con le braccia. È una cosa importante. 

A questo punto usate la longia lunga per ancorarvi alla sosta e cominciate ad allestire la vostra discesa: 

  1. Una volta che la longia è attaccata alla sosta staccate qualsiasi altra cosa che vi abbia ancorato fino a quel momento, ad esempio il dissipatore se siete su una via ferrata; 
  2. Attaccate la piastrina gigi alla corda facendo passare i due rami della corda da 70 metri nelle due cave della piastrina per poi intercettare le due asole che si sono create con un moschettone e intrappolarle così a contatto con i bordi della piastrina; 
  3. Attaccate la longia corta all’anello della piastrina
  4. Con il kevlar create la vostra sicura attraverso un nodo doppio inglese fissato ad un moschettone con un nodo barcaiolo e fissato all’imbrago e quindi realizzando un nodo machard intorno ai due rami della corda doppia
  5. Attaccate la longia lunga all’imbrago o dovunque non vi crei fastidio durante la discesa e iniziate a scendere. 
Per affrontare la discesa scordatevi tutto quello che avete visto fare da James Bond. Ebbene no, cari miei, il bravo James Bond in realtà è una frana a calarsi in corda doppia! Non si deve saltellare, ma camminare all’indietro con le spalle indietro e i piedi in alto. Tenete il nodo machard con una mano per portarvelo dietro, ma non tirate o stringete perché altrimenti si bloccherebbe e non lasciatelo neanche perché da bravo nodo autobloccante non vi lascerebbe fare più neanche un passo, e con l’altra mano tenete le corde leggermente dietro l’anca per darvi corda da soli e poter avanzare.

Ecco fatto: state scendendo! Se è la vostra prima volta magari fate come noi: provate prima per una lieve pendenza pratosa se potete e poi andate a divertirvi sulla parete. Nel nostro caso era una bella paretina verticale di circa 10 metri e per un paio di ore buone siamo scesi e risaliti da lì. Come abbiamo fatto a risalire lungo la corda doppia? Questo ve lo racconto un’altra volta: non vorrei ubriacarvi con tutte queste informazioni.

Però, siccome sono buona, un’ultima cosa ve la lascio: un bel video della Scuola Franco Aletto, scuola CAI dove ho seguito il corso di ferrate, che vi spiega come allestire la corda doppia, perché ci scommetto che non ci avete capito niente dalla mia spiegazione. E che ci volte fare: ve l’ho detto che mi scordo tutto ogni volta. Anzi, se avete suggerimenti, consigli o commenti su come imparare a scendere in corda doppia una volta per tutte o su come affrontarla in modo diverso sono tutta orecchie!



venerdì 8 giugno 2018

IL GIRO DEL LAGO PIAN PALÙ

LA VOLTA CHE IL SIGNOR COSO È STATO ASSALITO DA UN PESCE (MA È SOPRAVVISSUTO) 

Se un giorno vi trovate nella Val di Pejo, o anche nell’attigua Val di Sole, e avete voglia di un’escursione paesaggisticamente suggestiva ma non troppo faticosa questo articolo vi verrà in soccorso. Diciamo che questo è il McGyver dei pezzi che raccontano escursioni alla portata di tutti. Solo che non ha effetti speciali, né forcine esplosive, né soluzioni da escape room, né idee alla art attack per evitare la fine del mondo. Insomma è McGyver se McGyver fosse un tipo normale. Comunque parla di un bel trekking: il giro del Lago Pian Palù

Vista del Lago Pian Palù tra gli abeti cresciuti sulla riva

La partenza da Pejo Fonti


Quest’escursione comincia male, però poi migliora: ve lo giuro! Da Pejo Fonti bisogna avviarsi a piedi lungo la strada asfaltata fino ad arrivare al Rifugio Fontanino (1675 m). A essere onesti ci potreste arrivare anche in macchina e parcheggiare da qualche parte lì, ma non vi aspettate la spianata infinita e il nastro rosso e le cerimonie ad attendervi. Insomma è grasso che cola se trovate un buchetto dove nascondere la vostra Smart (se siete arrivati sulle Alpi con una Smart stima per voi, soprattutto per le valigie: ma dove le avete messe? Poi me lo spiegate).

Forse vi ricorderete del Rifugio Fontanino dall’escursione per il Sentiero dei Tedeschi, che poi è stata anche la prima volta in cui ho visto il Lago Pian Palù, ma nel caso ve lo siate dimenticato vi ripeto qui l’importante alert: non bevete l’acqua della fonte del Fontanino!

Sulla riva del fiume opposta al rifugio si salgono le ripide scalette di legno e terriccio, pienamente pedonali, che costituiscono l’unico tratto del sentiero 199 che si percorre in questo giro. Arrivati al lago ci si riposa un attimo (quella salita è veramente assassina) e quindi si attraversa la gigantesca diga che intorno agli anni Cinquanta ha determinato la nascita di questo lago artificiale. 

Vista dalla diga del Lago Pian Palù incorniciato dai monti

Il giro del Lago Pian Palù


Il giro comincia sulla strada militare, anche detto sentiero 124. Alias, potreste anche decidere di ignorare le scalette di prima e raggiungere la diga prendendo questo sentiero direttamente dal Rifugio Fontanino, ma a quel punto dove sarebbe il divertimento? Niente lingua di fuori appena partiti? Non si fa così ragazzi!

La strada militare porta fino alla Malga Giumella (1950m) dove un salvifico fontanile è sempre disponibile a offrire acque fresche ai grulli che vanno in giro con le borracce vuote (ma quello è successo solo quando siamo stati sul Sentiero dei Tedeschi, quindi almeno per questa volta siamo stati un po’ meno fagiani).

Se dividessimo il giro del lago in quarti bisognerebbe ammettere che questo primo quarto, che si dipana dalla Malga Giumella, è forse il peggiore: in salita, lontano dalla riva del lago, in mezzo al bosco. Ma già dal secondo quarto l’atmosfera cambia: la strada diventa discesa e si avvicina sempre più alla riva.

A metà giro, più o meno, bisogna attraversare un fiumiciattolo che si allontana dal lago. Quello che vi posso assicurare è che il guado è piuttosto facile e alla portata di tutti; come sia concretamente, ossia grazie a cosa si passi dall’altra parte, però, non ve lo posso assicurare. Dentro la mia testa si sovrappongono due ricordi entrambi terribilmente realistici: una diga di legno solida ma provvisoria che sembra fatta dai castori e un largo e basso ponte di legno fatto evidentemente dall’uomo. Quale esiste e quale è una mia invenzione? Siccome il Signor Coso giura che in questa escursione abbiamo incontrato anche mamme con i passeggini che non avevano difficoltà a fare il giro (di cui però non ho memoria: forse se l’è sognate lui), sono incline a pensare che esista realmente un ponte vero e proprio. Diciamo che è probabile esista al 70%, l’altro 30% sono i castori.

Superato il ponte-castoro si raggiunge la Malga Palù (1830m) riconoscibile da una casupola e da uno steccato. In questa zona del giro l’acqua del lago è poco profonda e dalla riva si possono vedere le rocce infrangere i flutti quieti appena smossi dal vento o venire sommerse, rifratte e deformate da poche dita d’acqua dolce. Da qui lo spettacolo del Lago Pian Palù è totalmente diverso da quello che si ammira dalla diga dove la profondità è grande e l’acqua scura.

Poco lontano dalla Malga Palù, lungo il sentiero, non è difficile incontrare d’estate al libero pascolo mucche a pelo lungo con importanti corna. Mi è stato confermato in questi giorni che le mucche sono animali completamente innocui e docili e che hanno una lingua ruvida (che c’entra la lingua con il discorso che sto facendo? Niente, ma sapevo questa cosa e ve l’ho detta), ma io sono in aperta ostilità con loro: sono sicura che le mucche siano persone orribili, altro che i cavalli, quindi anche in questo caso gli sono stata alla larga.
Poco dopo essere sfuggiti alla malignità delle mucche il Signor Coso e io abbiamo raggiunto l’unico tratto del lungolago dove c’è una specie di spiaggetta di piccoli sassi facilmente riconoscibile perché di fronte a una vicina isoletta. Qui – sulla spiaggia, non sull’isola – ci siamo buttati a riposare e a bagnare i piedi. C’era anche qualcuno che si faceva una nuotata nel lago, ma non vi consiglio di imitarlo: non si deve mai nuotare nei laghi artificiali, sono pericolosi!
Noi ci siamo limitati a sguazzarci dentro con l’acqua alle caviglie e nonostante questo un pesce è riuscito a dare l’assalto al Signor Coso che, dopo essersi preso un mezzo infarto, è riuscito coraggiosamente (e forse anche un po’ miracolosamente) a sopravvivere. Dite che la sto facendo troppo esagerata? Beh, forse non sapete che il Signor Coso è allergico al pesce. Ma sembra evidente che l’allergia non interviene quando è il pesce a mangiare il Signor Coso e non viceversa. E d’altro canto il pesce ha desistito quasi subito dal suo piano di sbranarsi la caviglia del Signor Coso. Magari il pesce è allergico al Signor Coso… 

Scorcio del Lago Pian Palù in un giorno assolato

Il ritorno a Pejo Fonti


Per fuggire da questo meraviglioso scorcio di natura del Parco Nazionale dello Stelvio, dove a quanto pare non è insolito d’autunno sentire il bramito del cervo in amore (sono l’unica che a questo punto si è immaginata Cocciante che bramisce?) abbiamo raggiunto nuovamente la diga e l’abbiamo attraversata ancora una volta. Ebbene sì: siamo tornati dal sentiero 124, la strada militare.

Raggiunto il Rifugio Fontanino ci siamo immersi nel bosco dall’altra parte del fiume e abbiamo preso il sentiero 110 che qualche giorno prima ci aveva fatto perdere portandoci a Pejo Fonti con un paio di ore di ritardo sul groppone. Questa volta, però, muniti dell’esperienza precedente, siamo riusciti a individuare il cartello che indica la via per Pejo Fonti e svoltato a sinistra abbiamo attraversato il fiume e ci siamo ricongiunti dopo un po’ alla strada asfaltata dell’andata. A questo punto la strada era tutta dritta fino alla pizzeria dove ci siamo insediati. Dove credevate che andassimo sennò? E dopo, se lo volete sapere, siamo andati anche alle terme! O almeno credo… penso… suppongo… non ne sono tanto sicura: non è che me lo ricordi veramente… 

Scorcio dei monti intorno al Lago Pian Palù con un'isolotto in primo piano

Scheda dell’escursione:


Partenza: Pejo Fonti (a piedi)
Arrivo: Pejo Fonti (a piedi)
Difficoltà: E
Durata: 3 ore circa
Dislivello: 430m
Sentieri: 124, 119, 110
Rifugi: Rifugio Fontanino

Le foto sono mie e del Signor Coso

venerdì 1 giugno 2018

L'ESCURSIONE AL MONTE DI CAMBIO

LA VOLTA CHE… “CHE VUOL DIRE CHE IL GPS SOFFRE DI LABIRINTITE?” 

Per quanto io abbia amato alla follia il Monte Prena, e temuto e forse anche un po’ odiato il Monte Camicia, devo ammettere con imbarazzo che né l’uno né l’altro sono stati la mia prima escursione sull’Appennino. No, la prima è stata l’escursione al Monte di Cambio, ed è stata un gran casino quindi perdonatemi in anticipo il conseguente caos di questa storia. 

Panoramica della vetta del Monte di Cambio

L’attacco all’escursione al Monte di Cambio


Prima cosa da sapere se volete andare a fare l’escursione al Monte di Cambio d’estate: portatevi tanta, ma tanta acqua. Perché? Un po’ di pazienza! Tra poco lo scoprite.

Una volta che vi siete muniti di almeno 5000 litri di acqua fresca potete partire. L’attacco all’escursione non è in un punto particolarmente definito, ma nel bel mezzo della Statale Vallonina, strada che a lungo andare vi porta dritto per dritto al Terminillo (d’altro canto il Monte di Cambio è proprio nel gruppo del Terminillo). Il meglio che posso fare per aiutarvi a individuare questo fantomatico punto è dirvi che dovrete superare il Rifugio A. Sebastiani (1820m). Poi troverete un piccolo spiazzo: parcheggiatevi lì.

Solo un piccolo alert: la Statale Vallonina dovrebbe essere chiusa in un qualche periodo dell’anno. Né io né il Signor Coso lo ricordiamo con chiarezza. Nel caso sia vero personalmente scommetto che è d’inverno, ma è tutto talmente “boh” che forse non mi dovreste star ad ascoltare.

Una volta parcheggiata la macchina la nostra prima azione è stata quella di incamminarci sulla strada asfaltata. Ebbene sì: ci toccava fare un pezzo sotto il sole cocente sul bitume rovente. Non si poteva proprio evitare. Ma il vero male è arrivato con la nostra seconda azione, a dire la verità.
Il fatto è, che a un certo punto, sulla destra è comparsa una “collinetta”. Avremmo potuto scegliere di ignorarla oppure l’avremmo potuta imboccare con la fiducia cieca di chi fino a quel momento è stato solo sulle Dolomiti e ignora ancora che l’Appennino è il triangolo delle Bermuda dei segnavia e dei sentieri ben tracciati. Ovviamente noi l’abbiamo imboccata. Eravamo illusoriamente convinti che fosse direttamente collegata al Monte di Cambio, che in qualche modo, insomma, sarebbe potuta essere una direttissima alla cima e che ci avrebbe fatto guadagnare tempo su questa escursione che in rete danno di 2 ore. Errato! La nostra convinzione era completamente errata! Era talmente errata che faceva più acqua dello scolapasta con cui mi sono fatta la cena ieri.
Dopo un’ora circa siamo tornati indietro con la coda fra le gambe: alla fine della “collinetta” c’era un mezzo burrone. Non era la strada giusta. E quindi siamo già a un’ora in più. Tenete il conto e ricordatevi: doveva essere un’escursione di 2 ore!

Tornati sulla via asfaltata poco dopo si incontrano finalmente i cartelli che segnano l’inizio dell’escursione: finalmente si comincia! 

Ultimi metri per la vetta del Monte di Cambio

La salita al Monte di Cambio


Il magico (e quasi unico in zona) cartello segna la via per un piccolo tratto di strada nel bosco dove, poco dopo, si incontra un bivio. Qui, a destra, si prende il sentiero 404-440, che sembra un mostro mitologico metà rebus e metà sudoku, e si circumnaviga una montagnola.

Superato questo tratto si precipita in un’area erbosa che io ricordo caratterizzato solo da due cose: un fontanile che imita alla perfezione il deserto del Sahara e le cacche di mucca… c’erano cacche ovunque. Era praticamente impossibile camminare senza schiacciare qualche escremento e le mosche che ci giravano in torno… va beh! Non entriamo nel dettaglio. Non è stato piacevole, comunque.
Quello per cui è veramente famosa nella mia memoria questa conca erbosa, però, è il fatto che, al netto della “collinetta” sopradetta, è stato il tratto in cui è veramente diventato evidente che quel giorno era all’insegna dello smarrimento. Non sapevamo proprio dove andare o anche solo dove fossimo. Contestualizziamo un po’ il discorso, però. Non eravamo solo il Signor Coso e io. Eravamo con un nostro amico molto più esperto di noi, lo stesso con cui abbiamo fatto le escursioni del Circeo, del Prena, una delle due del Camicia e quella dei Prati del Sirente, che si portava a spasso un GPS. Questo ci rendeva molto più fiduciosi del dovuto. Credevamo di non poterci perdere, almeno finché non abbiamo guardato la freccetta che ci doveva guidare e ci siamo accorti che il nostro GPS era come un ubriaco fradicio in piena crisi di labirintite su di un barcone che affonda in mezzo a un gorgo in pieno Oceano Pacifico durante uno tsunami nella stagione dei monsoni. Insomma eravamo persi!

Ecco perché è difficile per me dirvi esattamente cosa abbiamo fatto. Diciamo che… avete presente Benny Hill (quelle comiche inglesi dove tutti si inseguono in accelerazione con la musichetta carina in sottofondo) e la sigla dei Teletubbies quando saltellano per le colline? Ecco! Fondatele insieme e avrete quello che abbiamo fatto noi. E prima che me lo chiediate: aggiungete al conto un’altra ora.

In un tentativo di reverse engineering, comunque, sono riuscita a ricostruire con abbastanza certezza quello che abbiamo fatto: prima abbiamo preso il sentiero 414 e poi il sentiero 429, o almeno avremmo dovuto prenderli. Ciò che è certo è che se vi trovate su un sentiero e sull’orizzonte alla vostra sinistra vedete comparire lo screensaver di Windows – non la finestra, la collina verde – siete sulla strada giusta.

A quel punto le pendici del Monte di Cambio sono a vostra disposizione. Noi le abbiamo riconosciute subito perché abbiamo incontrato dei biker che salivano verso la cima con le loro mountain bike sulle spalle. Avevano nei piani di farsi la discesa invertendo i ruoli: loro sopra e le bici sotto. Noi siamo poi rimasti a guardarli filare giù: uno spettacolo suggestivo. Meno suggestiva era invece la gang di capre che ci ha seguito quasi fino alla cima fissandoci costantemente. Mettevano un po’ di ansia.

Arrivati sulla vetta del Monte di Cambio (2081m) abbiamo fatto la conoscenza della statuina nera della Madonna delle nevi e della vicina croce metallica. Dalla cima, nei giorni sereni, si può godere un meraviglioso panorama sul Monte Terminillo, sul Gran Sasso, i Monti dell'Alto Lazio, i Monti dell'Alto Aterno, i Monti della Laga fino ad arrivare al Monte Vettore. E se non fosse stato che a quel punto ero completamente consumata e sfinita forse quella stupenda vista me la sarei goduta un po’ di più.

La vetta del Monte di Cambio con la Madonnina delle nevi in primo piano e la croce metallica sullo sfondo

La discesa dal Monte di Cambio


Sul ritorno dal Monte di Cambio non c’è da dire molto. Non perché sia stata la stessa strada dell’andata, ma perché non vi saprei proprio dire che strada fosse. Ricordo però che lì abbiamo incontrato diversi massi e pareti perfette per la discesa in corda doppia che avremmo voluto fare quel giorno. Il nostro amico, quello del GPS, oltre a portarsi dietro il navigatore più ubriaco della galassia si era trascinato in lungo e in largo un cordone di 20 metri apposta per fare la corda doppia. Solo che a quel punto eravamo troppo stanchi/accaldati/assetati (avevamo finito l’acqua nonostante le molteplici borracce che ci eravamo portati, il Signor Coso e io avevamo tre borracce in due per intenderci) che abbiamo rinunciato a tutto.

Per fortuna, però, la via del ritorno è stata più lineare, così in relativamente poco tempo, strascicando i piedi, ansimando e zoppicando, abbiamo raggiunto di nuovo il Rifugio Sebastiani, ci siamo precipitati dentro e abbiamo bevuto tutto ciò che potevamo trovare.

È così che è terminata la mia prima escursione sull’Appennino: giurando che mai e poi mai sarei tornata a morire di caldo e di disidratazione lassù. Ma lo sapete anche voi: non ho mantenuto quel giuramento (come avrei potuto?) però – ehi! – sul Terminillo ancora non sono tornata… datemi tempo! 

Panoramica del sentiero per il Monte di Cambio

Scheda dell’escursione:


Partenza: Statale Vallonina (a piedi)
Arrivo: Statale Vallonina (a piedi)
Difficoltà: E
Dislivello: 550 m
Durata: 4 ore circa
Sentieri: 404-440, 414, 429

Tutte le foto sono mie o del Signor Coso