venerdì 27 aprile 2018

L'ESCURSIONE AI PRATI DEL SIRENTE

LA VOLTA CHE… “DOV’È CHE SIAMO ANDATI?”

Qual è l’evento più strano a cui vi siete imbucati? Fino a mercoledì scorso per me era una festa di 18 anni in un centro sportivo (dove ho pure incontrato incredibilmente un’amica che non vedevo da anni, lei però era invitata). Ma da questo 25 aprile è un’escursione ai Prati del Sirente vicino a Ovindoli. Che poi era più una scampagnata, ad essere onesti. Ma andiamo con ordine. 

La via nel bosco di faggi per i Prati del Sirente

L’avvicinamento a Rovere


A dire il vero una specie di invito ce lo avevo. Un amico era stato invitato e aveva portato dentro anche me e il Signor Coso. Solo che ci aveva detto che saremmo andati dalle parti di Pescasseroli, al Rifugio di Prato Rosso e che sarebbe stata, per quanto tranquilla, un’escursione tipo quelle solite che facciamo con lui. E tanto per farvi capire perché io ero attrezzata quasi come se dovessi tornare sul Vioz, lui è lo stesso amico che mi ha portato per la prima volta a prendere letteralmente fuoco sul Monte Camicia, con cui ho conquistato un Prena inaspettatamente innevato, ventoso e gelido, sono arrivata in cima al Promontorio del Circeo e mi sono ripetutamente persa sul Monte di Cambio, sul Terminillo. Insomma normalmente con lui non si fanno scampagnate. Questa volta però non aveva organizzato lui; quindi questa era una scampagnata più che un’escursione. Questa cosa, però, io l’ho capita solo mercoledì mattina, alle 8.00, così come il fatto che la meta fosse cambiata e che si andasse a Ovindoli, non a Pescasseroli. Quindi sarò anche giustificata se mi sono scordata a ripetizione dove stavamo andando, no?!

L’attacco dell’escursione, in realtà, non è veramente a Ovindoli, ma nel delizioso borghetto di Rovere che secondo recenti notizie intercettate casualmente a pranzo ho scoperto contare di soltanto 40 abitanti. Fatto reale? Non saprei. Potrebbero anche essere 39 o 41; certo è che io ne ho visto solo uno: la barista. Stop. Quindi deserto mi è sembrato veramente deserto come borgo. Se volete diventare eremiti trasferitevi lì: è il posto perfetto! 

Vista dei monti dell'Abruzzo dal sentiero per i Prati del Sirente

L’escursione ai Prati del Sirente


Poco fuori dal paese parte una via asfaltata che si immerge nei prati e che era l’inizio della nostra escursione. Già ai primi passi però è stato chiaro che, non solo quella era una scampagnata, ma che il Signor Coso e io eravamo gli unici due fagiani a non saperlo. Tutti quanti gli altri (una folla immensa di altri, per altro) erano vestiti per andare a fare quattro passi nel parco e per la maggior parte avevano la stessa velocità di camminata della passeggiata nel parco. Quindi noi ci abbiamo messo più o meno una vita a fare questa escursione, ma ve lo dico: in condizioni normali in circa due ore si fa tutto

La via in poco tempo si trasforma in un fangoso sentiero carrabile che costeggia brevemente un laghetto (che a dire il vero sembra più uno stagno) e prosegue poi fino ad immergersi nel bosco di faggi in cui si svolge quasi tutta l’escursione. Fino a qui sembra facile vero?! E invece non lo è! Perché già qui noi non sapevamo dove andare e non c’erano davvero altri sentieri da percorrere eh! Però comunque mappa in mano e ci siamo fermati a cercare di capire dove diamine fossimo. Per meglio dire, gli altri si sono fermati per cercare di capire: per me potevamo stare anche in Australia per quanto ne sapevo.

Una volta constatato che dovevamo seguire per un piccolo tratto l’ippovia (per inciso, se amate i cavalli questo è il posto perfetto per una bella passeggiata) e poi prendere il sentiero 14A siamo riparti certi e fiduciosi. È qui che abbiamo sbagliato! Il sentiero, a quanto diceva il libro a cui c’eravamo affidati, doveva essere essenzialmente in discesa e noi, a un tratto, stavamo facendo una salita che neanche il Sassongher. Che poi il sottobosco era una specie di sabbie mobili nostrane fatte di terriccio morbido e foglie secche. Salire su quel terreno faceva andare a fuoco i polpacci. Ovviamente il Signor Coso e io eravamo nel gruppo d’avanscoperta, così siamo arrivati fino alla cima del pendente sentiero prima di capire che qualcosa non andava. Per farla semplice avevamo sbagliato strada, praticamente al bivio iniziale. Quindi quando vi trovate a prendere il sentiero 14A prestate attenzione a dove andate. Dopo neanche due passi dal primo segnavia c’è un bivio quasi invisibile: di fronte a voi un’autostrada in salita e alla vostra sinistra un sentierino pianeggiante segnato da una “visibilissima” freccetta su una roccia a terra. Ecco! Andate a sinistra.

Recuperato il sentiero corretto, questo sì che procede in pianura/discesa, la strada si snoda per la faggeta senza troppe sorprese. Basta stare attenti a non perdere il segnavia e tutto va liscio come l’olio. Noi dopo l’inganno del salitone, però, a ogni bivio ci fermavamo e tiravamo fuori la carta. E anche se ci fossero state le insegne al neon a indicarci la strada avremmo comunque perso per puro panico buoni dieci minuti a cercare di capire dove andare con libro, mappe (ebbene sì ne avevamo due), gps e la comoda app di uno di noi che ci tracciava in continuazione la macchina. Insomma manco fossimo andati a fare un’escursione nella Foresta Amazzonica!

Che poi il vero problema di questa escursione sono i rami. No, non quelli sugli alberi, quelli a terra. Ogni due passi c’era un ramo. E avete presente la scena di Telespalla Bob con i rastrelli (se non l’avete presente la trovate qui)? Ecco! Uguale. Ogni passo tiravamo su un ramo che colpiva o qualcun altro di noi o noi stessi. Solo che invece di colpirci in faccia ci centrava in pieno un polpaccio neanche fossimo dei marshmallow. Ci ho fatto sanguinare il Signor Coso così; e lui due secondi dopo mi ha scartavetrato la gamba. Dice di non averlo fatto apposta, ma mi è sembrato sospetto. 

Lago sulla via per i Prati del Sirente

Dopo un po’ che si segue il sentiero si raggiunge una recinzione faunistica ormai in disuso che, in passato, è stata usata per rintrodurre nella zona il cervo. Ebbene sì: avevamo finito i cervi. A quanto pare durante la seconda guerra mondiale ce li eravamo mangiati tutti. Per fortuna che non hanno fatto la stessa fine dei bufali americani! Comunque guardando il recinto si passa a destra costeggiandolo per tutta la sua lunghezza e, quando finisce, lo si continua a costeggiare per ridiscendere all’altezza giusta del sentiero. Forse anche in quel caso avevamo sbagliato strada, ma non ho prove di questo.

Il vero punto che ci ha messo in difficoltà è stata la Piana della Chia. Da qui partono due sentieri, entrambi con un anonimo segnavia senza nome. Quello a sinistra, che ho poi scoperto essere il sentiero 14B, porta diretto ai Prati del Sirente (1113m). Quello di fronte invece, ossia il sentiero 14A, prosegue fino ai Prati del Sirente con una discesa graduale. Sulle prime non sembra neanche scendere. Noi abbiamo fatto questo sentiero, ma non per una scelta consapevole: avevamo solo paura che se il sentiero che scendeva ripido fosse stato sbagliato molti del nostro gruppo ci avrebbero pestato stile Fight Club prima di cominciare la risalita. Non volevamo rischiare di incontrare Tyler Durden.

Per una volta, però, la scelta più o meno inconsapevole è stata azzeccata. Il 14A praticamente esce dal bosco di faggi solo alla fine e riesce nel machiavellico piano del Bernini quando creò Piazza San Pietro: sconvolgere lo spettatore con una vista di pura grandiosità. In questo caso ad aprirsi di fronte al nostro sguardo non è stata tanto la conca carsica dell’altopiano alla nostra sinistra, quanto la meravigliosa, ripidissima, rocciosa e nevosa parete nord del Monte Sirente (2348m). Una vista da togliere il fiato (e che ci ha fatto venire l’acquolina in bocca all’idea di salirlo. Cosa che purtroppo non abbiamo ancora fatto).

Comunque nel bel mezzo dei Prati del Sirente ci sono due laghetti, probabilmente artificiali. Il primo è l’habitat del tritone crestato, della rana verde e del rospo comune. Nel secondo, invece, sguazzavano le anatre e probabilmente si abbeverano le mucche che quaggiù sono lasciate al pascolo libero (al punto che mentre raggiungevamo Rovere ce le siamo ritrovate in mezzo alla strada). Tra l’altro in questo secondo, e più ampio, laghetto ci ha sguazzato piacevolmente anche il protagonista indiscusso di questa giornata: un bulldog francese che per il rumore che faceva quando camminava deve avere parenti cinghiali e che per amore di privacy chiameremo Bufalino. Vi lascio immaginare quanto era nero Bufalino quando siamo tornati alle macchine… 

La parete nord innevata del Monte Sirente vista dai Prati del Sirente

Il ritorno dai Prati del Sirente


Con le macchine abbiamo imbrogliato, lo ammetto. Le avevamo lasciate al punto di arrivo, quindi c’è poco da raccontare del ritorno. Anche perché io mi sono addormentata. Quindi vi potrei raccontare cosa ho sognato se me lo ricordassi, ma non me lo ricordo quindi… Niente! Siamo tornati a casa. Tutto qui.

Alla fine l’escursione dei Prati del Sirente è stata decisamente tranquilla, ma ad essere onesta è andata bene così: dopo tutto l’inverno a non mettere il naso fuori di casa e a far vincere sempre la mia pigrizia sono in pessima forma. Della serie che alla fine della scampagnata zoppicavo pure. Diamine! Ha ragione il Signor Coso: sono fracica

Il lago dei Prati del Sirente dove sono le rane

Scheda dell’escursione:


Partenza: Rovere (tramite sentiero)
Arrivo: Prati del Sirente (tramite sentiero)
Difficoltà: E
Durata: 2 ore circa
Dislivello: 250m
Sentiero: 14A

Le fotografie sono mie

giovedì 19 aprile 2018

LA FERRATA COL RODELLA

LA VOLTA CHE ABBIAMO CAMBIATO VALLE PER UN KRAPFEN 

Non tutte le vie ferrate sono lunghe e difficili. Ci sono anche ferrate emozionanti, ma alla portata di più o meno tutti (fatta salva la formazione che ci vuole in ogni caso: mica si può andare a passeggiare in parete senza sapere neanche come è fatto un cavo metallico) e la ferrata del Col Rodella è proprio una di quelle meravigliose klettersteig. 

Vista della Val di Fassa dalla ferrata del Col Rodella con un parapendio in cielo


L’avvicinamento al Col Rodella


Il Col Rodella sovrasta Campitello. Ve lo ricordate Campitello? Quando vi ho raccontato della mia prima escursione, quella sul Sassopiatto,vi ho rivelato che dovrebbe essere meta di pellegrinaggio per la pasticceria più buona dell’universo che, potendo scegliere se aprire sulla Terra o su qualsiasi altro pianeta (magari Ceres che sembra proprio un bel asteroide e ha già della buona birra), ha scelto di stare proprio lì in Trentino. E già solo questo a me sembra un ottimo motivo per andare a fare trekking in Val di Fassa. E in effetti un po’ lo è stato.

L’estate del Col Rodella per il Signor Coso e me era l’estate delle ferrate. C’eravamo partiti dall’anno prima con quell’idea, per merito di un inaspettato sentiero attrezzato, che per comodità chiameremo il sentiero per il Rifugio Re Alberto, che ci aveva messo addosso una febbre da ferrata che non è mai passata. Non eravamo, però, nel raggio di azione del Col Rodella ad essere sinceri. Eravamo a Colfosco, in Val Badia, che non è dall’altra parte del mondo ma non è neanche in Val di Fassa; e ci stavamo trovando bene. Avevamo già fatto un paio di klettersteig, la ferrata del Piccolo Cir prima e la ferrata Brigata Tridentina poi, e avevamo assaltato ogni rifugio a nostra disposizione in cerca di un krapfen, neanche fossi un tossico in cerca di metadone (parlo al singolare perché in realtà ero solo io ad andare a caccia di krapfen). Ed è proprio qui che cade il pero.

Provate a immaginare di essere in una camera d’albergo, morti sul letto, sfiancati dalla fila di quattro ore sulla Tridentina e da un altro paio di escursioni piuttosto lunghe, affamati di krapfen mai trovati e in contemplazione sulla ferrata di Santa Cristina e sul suo infinito avvicinamento che dovrete fare il giorno dopo. Ora ditemi: non avreste accettato anche voi la proposta di andare a fare la breve ferrata del Col Rodella e assaltare poi la pasticceria più buona dell’universo? Chiamatemi pure debole, ma io non ho resistito. Così abbiamo caricato gli zaini e l’attrezzatura in macchina e abbiamo cambiato valle. Un viaggietto non velocissimo, ma volete mettere quanto sarebbe stato peggio se la pasticceria avesse davvero aperto su Ceres? 

Vista delle Dolomiti dalla cima del Col Rodella in Val di Fassa


La ferrata Col Rodella


Da Campitello si potrebbe salire fino all’attacco della ferrata per un facile sentiero di circa 40 minuti. L’ho detto, però: avevo scelto il Col Rodella per non fare avvicinamento quindi noi abbiamo preso la funivia e in un attimo eravamo di nuovo lì: all’uscita della stazione con il discesone spacca-ginocchia di fronte a noi. Un brutto deja-vu, ma stavolta non mi avrebbe avuta! 

Svoltando a destra siamo scesi passando sotto i cavi della funivia e abbiamo percorso una pietraia da cui è quasi immediatamente visibile l’attacco della ferrata a sinistra della stazione. Era una giornata di sole, una di quelle giornate in cui i cieli della Val di Fassa si riempiono di corvi e tipi in parapendio e infatti c’erano tutti e due e se non fosse stato per la diversa dimensione sarebbe stato facile confonderli. E mentre loro scendevano noi ci preparavamo a salire. Caschi in testa e imbrago alla vita e abbiamo cominciato a conquistare la parete sud del Col Rodella.

Il primo tratto della ferrata non presenta particolare difficoltà. Si procede in diagonale fino a incontrare un camino coricato che si supera in spaccata (grazie mamma di avermi iscritta a ginnastica artistica quando ero bambina!). Il difficile arriva dopo, quando si incontra il primo tratto di roccia liscia che, però, è abbastanza breve. Si prosegue quindi per un tratto quasi pianeggiante, ma ben schiacciati contro la parete, fino a raggiungere un traverso aereo che porta a una serie di staffe su una parete a precipizio. Ed è qui il piccolo dramma.

Il Col Rodella, vi sarà ormai chiaro, era la nostra terza ferrata in assoluto, ma soprattutto (e questo non lo potete sapere) era la prima ferrata che facevamo mandando me per prima. Me! Provate a immaginarvelo. Io, che sono talmente goffa da aver preso ben due pali in fronte nella mia vita, letteralmente, e d’aver perso il conto del numero di finestre che ho preso a testate, io andavo per prima su di una ferrata che non sarà particolarmente complessa ma che è quasi sempre esposta e molto verticale. Eravamo fregati! E io ero nel panico. Ho fatto tutta la ferrata ripetendo “perché lo sto facendo? Perché lo sto facendo? Perché lo sto facendo?” e ho cominciato a dirlo in modo ancora più stridulo quando mi sono resa conto che alla scaletta mancavano un paio di staffe per permettermi di superare facilmente la parete. Niente, non c’erano: ero bloccata lì; per il fastidio del Signor Coso che, non capendo dal basso quale fosse il problema, mi incalzava per farmi andare avanti. Tipo quelli che ti suonano quando ti fermi per far passare un pedone. Solo che in questo caso non stava passando nessuno, neanche io. 


Ora, potrei lasciarvi con il dubbio di come si supera questo piccolo imprevisto così da vedere quanto ci metterete voi quando ci andrete a trovare la soluzione che ho trovato io, ma sono buona: vi rivelo il trucco. A sinistra, verso il vuoto, c’è una conca dove poter infilare la mano. La sensazione che avrete sarà quella di starvi per suicidare, ma fidatevi ce la farete! Sì ce la farete, ma solo per finire nel bel mezzo del secondo tratto di roccia liscia, sta volta più lungo e più esposto.

A quel punto, d’improvviso e senza motivo, ho scoperto di aver paura del vuoto. Mi era successo un po’ sulla Tridentina, ma il Col Rodella è stato tutto un altro livello di paura del vuoto così da “perché lo sto facendo?” ho cominciato a ripetere “non cadere! Non cadere! Non cadere!”. È stato utile: non sono caduta. Forse avrei dovuto ripete anche “non farti colpire dal sasso! Non farti colpire dal sasso!” visto il diluvio di sassolini (piccoli ma maleficamente duri) che una signora davanti a me mi ha lanciato addosso a ripetizione per tutta la ferrata senza avvertire mai. Chissà se avrebbe funzionato.

Superato il tratto liscio si ha tempo di riprendere fiato per poi affrontare un traversino esposto che richiede l’aggiramento di uno spigolo per raggiungere un tratto più tranquillo di piccole rocce. Da questo punto in poi si è praticamente alla fine della ferrata. Una serie di gradoni di roccia, una scaletta e si è arrivati in cima, al Rifugio Col Rodella (2486m). E da qui in poi mi sono di colpo tramutata in un Messner in miniatura da sempre convinto di potercela fare. E niente: la paura del vuoto era già dimenticata. Giuro che non ero io quella che si schiacciava contro le rocce in iperventilazione e che a un certo punto ha pure rischiato di scivolare. Giuro! Era la mia gemella cattiva. 

L'ultimo tratto della ferrata Col Rodella visto dalla cima del Col Rodella


Il ritorno a Campitello


Il Signor Coso e io abbiamo festeggiato la conquista del Col Rodella con un buon piatto di fettuccine/pappardelle (non ricordo e non so la differenza) al ragù di cervo al Rifugio Col Rodella. È stato un pranzo veloce però: il nostro obiettivo era un altro. 

Attraverso un sentiero acciottolato breve ma ripidissimo (tutto da quelle parti deve essere ripido altrimenti viene bandito per sempre dal gruppo montuoso del Sassopiatto) siamo tornati al Rifugio Des Alpes (2440m) e abbiamo ripreso la funivia e giù fino a Campitello e poi alla pasticceria. Io già lo sentivo il sapore di quel krapfen. La marmellata che mi invadeva la bocca, la pasta che cedeva sotto i denti… e invece niente. Ve lo dico da subito: la pasticceria più buona dell’universo aveva finito i krapfen perché… beh, perché erano le quattro di pomeriggio più o meno. Mea culpa. Mi sono consolata con una fetta di torta, comunque. Non che mi lamenti però… ho pure cambiato valle per quel krapfen e invece… niente krapfen quell’anno. Niente in assoluto. Che tristezza! 

Fetta di torta al cioccolato con panna comprata in pasticceria a Campitello di Fassa


Scheda della ferrata:


Partenza: Campitello (in funivia) 
Arrivo: Campitello (in funivia)
Difficoltà: EEA
Durata: 1 ore circa
Dislivello: 100m
Rifugi: Rifugio Des Alpes, Rifugio Col Rodella

Tutte le foto sono mie e del Signor Coso. Le riprese video e il montaggio sono del Signor Coso. La musica del video è free royalty ed è stata presa da Bensound

venerdì 13 aprile 2018

EVEREST, IL FILM

LA PELLICOLA SULLA TRAGEDIA DEL 1996

L’inverno è finito, anche da un po’ ormai. Così, da qualche parte nel mondo, si sta già preparando tutto per l’abituale corsa estiva alla cima del tetto del mondo che da ormai qualche decennio vede la partecipazione di un numero indefinito di alpinisti, esperti e non. Ma siccome mi sento generosa e vi voglio far risparmiare qualche migliaio di euro oggi vi ci porto io, gratis, sulla montagna più alta della terra con Everest, il film del 2015.
Locandina del film Everest, basato sulla storia vera della tragedia del 1996
Fonte: Uvm Bored;  tutti i diritti di copyright appartengono alle case di produzione e a chiunque altro abbia la paternità di questa foto

Cos’è Everest, il film?


Come forse avrete intuito dal nome, Everest è un film che parla, appunto, dell’Everest. Ma non racconta dell’Everest in generale, o della sua conquista nel 1953 da parte di Edmund Hillary o del tentativo (forse riuscito) di George Mallory e Andrew Irvine nel 1924. No, parla di un altro evento allegro almeno quanto il tentativo di Mallory e Irvine: la spedizione disastrosa del 1996.

Insomma è proprio uno di quei film che ti vedi se sei depresso e vuoi decidere con che sapone insaponare la corda. Consiglio quello di Marsilia: per lo meno muori circondato da un buon profumo. Fatto sta che per intenderci, sullo spettro dell’allegria, è all’esatto opposto di L’Ascension, la commedia francese sull’inesperto che ha conquistato l’Everest (tratta incredibilmente da una storia vera). In un paradosso tipico del mondo dello spettacolo entrambi i film sono facilmente reperibili su Netflix così in un solo giorno se vi sentite abbastanza bipolari vi potete dare al binge watching e guardarveli insieme. Consiglio prima L’Ascension e poi Everest, perché è come con l’alcol: si deve andare a salire, mai scendere. E ricordatevi il sapone di Marsilia, mi raccomando!

Quando è uscito, Everest ha aperto la settantaduesima edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia come film fuori concorso. Un bell’onore; quindi non vi stupirà sapere che è un film niente male. Che poi nel cast, tra gli altri, c’è pure Jake Gyllenhaal e non è mai male un film con Jake Gyllenhaal. Però io ve lo dico: compare per un totale di tipo 10 minuti su 2 ore di film; quindi io non me lo guarderei per vedere lui. Guardatevelo piuttosto perché nella mia affidabilissima e inopinabile scala “quanto mi ha fatto piangere” ha raggiunto il rispettabilissimo livello “ho pianto come una cascata” che significa più o meno che è bello (considerate che più su di questo c’è “ho pianto come il diluvio universale” che a memoria è capitato solo con Big Fish e l’inizio di Up).



La storia del film Everest


Everest racconta la storia vera di un disastro avvenuto più di vent’anni fa. Uno di quei disastri che sono, purtroppo, rimasti nella storia perché in un colpo solo la montagna più alta del mondo, forse il più facile tra gli Ottomila, ha ucciso 11 persone.

Questa storia era già stata raccontata prima in un articolo e poi nel libro Aria sottile (Into Thin Air) da Jon Krakauer partecipante alla spedizione come inviato del mensile Outside, all’epoca una delle principali riviste statunitensi sul mondo dell’avventura e degli sport estremi. Questo libro, in realtà, aprì una discussione che non si è mai conclusa. Questo capita spesso, a dire il vero, nel mondo dell’alpinismo. Con il senno di poi nascono spesso tanti ma e tanti se e ancora più versioni diverse della stessa vicenda (il fattaccio della conquista del K2 potrebbe considerarsi un esempio da manuale sull’argomento). In questo caso la questione era terribilmente semplice e al tempo stesso terribilmente complicata: Krakauer accusò Anatoli Boukreev, grande alpinista e guida di una delle spedizioni protagoniste della tragedia, di aver abbandonato i propri clienti e di avere molte responsabilità per ciò che era successo. Boukreev era reo di essere tornato al campo IV prima dei suoi clienti perché era salito in vetta in stile alpino, ossia senza ossigeno. Questo certo era vero, come però era anche vero che i clienti erano rimasti con altre guide e che Anatoli Boukreev negli stessi momenti della tragedia uscì in mezzo alla bufera e portò in salvo tre alpinisti dispersi, come affermò poi nel suo libro di difesa Everest 1996 - cronaca di un salvataggio impossibile (The Climb: Tragic Ambitions on Everest). Purtroppo la sua morte prematura sull’Annapurna nel 1997 ha stroncato questa discussione lasciandola per sempre orfana di una soluzione.

Ma cosa è successo quel 10 maggio 1996 sull’Everst? Il film parla proprio di questo. Parla di Rob Hall (Jason Clarke), che sta per avere una figlia ed è proprietario dell’Adventure Consultants, società che si occupa di organizzare spedizioni commerciali sull’Everest. E parla anche di Scott Fischer (Jake Gyllenhall) che organizza a sua volta spedizioni commerciali con la sua società Mountain Madness. Parla dei loro clienti e della folla di gente che si stringeva nel campo dell’Everest in quel giorno. Parla dell’idea di Hall e Fisher di unire le due spedizioni in una sola per venire a capo dei problemi che un affollamento del genere può creare su di un Ottomila. Parla di come alcune difficoltà dei clienti e altre organizzative abbiano fatto tardare troppo l’arrivo in vetta. Parla della bufera di neve che li ha sorpresi e travolti. E parla anche di Beck Weathers (Josh Brolin).

Beck Weathers non era un principiante. E a rischio di farvi un terribile spoiler Beck Weathers non è neppure una vittima dell’Everest. Weathers è il protagonista di una prima assoluta nella storia delle scalate degli Ottomila. Dopo aver trascorso una notte all’addiaccio in un bivacco, riuscì con le sue sole forze a tornare al campo IV dove gli toccò trascorrere un’altra notte al freddo in una tenda. I suoi compagni lo credevano destinato a morire a causa dei gravi congelamenti riportati a mani e viso. E invece sopravvisse. A quel punto i compagni lo aiutarono a raggiungere il campo II dove un elicottero osò sfidare per la prima volta nella storia quelle altitudini e riuscì miracolosamente dove altri avevano fallito o desistito prima di lui. Il pilota che permise questa incredibile evacuazione di soccorso si chiamava KC Madan. Anche lui ora è nella storia. È grazie a lui se Beck Weathers oggi è vivo nonostante abbia perso l’uso di entrambe le mani e del naso. È grazie a lui se Weathers ha potuto raccontare come siano stati qui momenti per lui:


“Ero perso. Ero quasi cieco. Le mie mani erano congelate. Il mio viso era distrutto dal freddo. Non ho mangiato per tre giorni e non bevevo da due. Ricordo che il vento mi spostava, pregavo affinché mi liberassero, ma in cuor mio sapevo che non sarei mai sopravvissuto. Ho alzato lo sguardo e ho capito che in una sola ora, quando le tenebre sarebbero di nuovo scese, il freddo avrebbe attraversato il mio corpo solo un’ultima volta.”

Il gruppo dell'Adventure Consultants nei giorni prima della tragedia del 1996
Fonte: Polka Kultura; tutti i diritti di copyright appartengono a chiunque altro abbia la paternità di questa foto

Cosa significa andare sull’Everest


Quando vidi il film Everest ero appena tornata dal Monte Prena, un’esperienza di certo non paragonabile oggettivamente a questa tragedia ma che per me era stata una prima volta in assoluto: neve, vento gelido, vento forte, vestiti troppo leggeri. Il Prena era stato un colpo inaspettato della montagna quindi per me fu immediato legare insieme per sempre film ed escursione. Così quando qualche giorno dopo parlando con un amico mi sono sentita chiedere “ma perché fanno queste cose? Sono pazzi!”, mi è venuto naturale rispondergli “ma tu te lo immagini che vista si ha da lassù? È l’unico posto al mondo così!”. E nonostante io sia sicura di non aver intenzione mai nella vita di fare un Ottomila (preferirei tenermi strette vita e falangi delle dita) ci credevo davvero quando glielo ho detto perché nonostante il Prena fosse stato duro io ci sarei tornata già il giorno dopo.

Detto questo, però, ragionando a mente fredda mi sono resa conto che è necessario disegnare i confini di certe affermazioni. Potrebbe darsi che aveva ragione Mallory quando diceva che l’Everest è lì a ricordarci il rispetto che si deve alla natura e all’altezze inaccessibili. Una vista come quella dell’Everest è unica, ma è anche costosa. Più di 235 persone sono morte nella conquista di questa vetta di 8848 metri. Molti di quei morti sono ancora lì: l’Everest è uno dei più grandi cimiteri a cielo aperto del mondo. C’è chi è morto per una valanga, chi per una caduta, chi per i congelamenti e chi per il mal di montagna. Lassù infatti l’aria rarefatta e la pressione rendono difficile respirare per lungo tempo. Per questo le scalate senza ossigeno sono solo il 2,7% circa. Per altro il vento può superare i 200 mph e la temperatura minima può raggiungere anche i -62C. E queste condizioni climatiche, unite ovviamente all’impegno fisico richiesto, portano in media a una perdita di peso che oscilla tra i 5 e i 10 chilogrammi (ecco se volete prepararvi alla prova costume vi ho dato la soluzione perfetta!).

E se vogliamo essere anche un po’ venali sappiate che salire sull’Everest può costare dai 30.000 dollari per una scalata in solitaria ai 90.000 dollari per una spedizione VIP, ossia con connessione internet e linea telefonica. E queste sono solo stime: tutto varia poi da compagnia a compagnia. Però quello che resta imprescindibile è la tassa obbligatoria che tutti gli stranieri che vogliono affrontare l’Everest devono pagare al governo nepalese: dagli 11.000 ai 25.000 dollari a seconda della grandezza del gruppo e della durata della spedizione.


E quindi, a questo punto, a chi va di fare una gita fuoriporta sull’Everest?

Il monte Everest innevato
Fonte e credits: Lutz6078; immagine dell'Everest dalla base

Scheda del film:

Sceneggiatore: Simon Beaufoy, William Nicholson
Regista: Baltasar Kormàkur
Produttore: Universal Picture, Cross Creek Pictures, Walden Media, Working Title Films, RVK Studios
Durata: 121 minuti
Anno di uscita: 2015

venerdì 6 aprile 2018

ESCURSIONE AL RIFUGIO RE ALBERTO

LA VOLTA IN CUI IL SIGNOR COSO SI È PERSO LE SUOLE

Immaginate di aver appena terminato l’escursione fino al Rifugio Vajolet dopo essere sopravvissuti al peggior sentiero che l’inferno potesse progettare per grigliarvi e di avere un ginocchio maciullato giusto il giorno prima dal Sassopiatto. Ecco, in questa situazione, non avreste continuato a camminare anche voi e non avreste raggiunto il Rifugio Re Alberto? No, perché è esattamente quello che ho fatto io.

La conca Gartl vista dopo aver concluso il sentiero attrezzato per il Rifugio Re Alberto

La partenza dal Rifugio Vajolet


Quando sono arrivata al Rifugio Vajolet non ero più una persona, ma un uovo all’occhio di bue cotto a puntino. Nonostante ciò però, forse per merito del buonissimo primo krapfen della mia vita, mi sentivo piena di energia. Probabilmente è per questo che non ho trovato niente di male nella proposta del Signor Coso di continuare l’escursione verso il Rifugio Re Alberto; anzi ne ero entusiasta.

Così, avviandoci verso Passo Principe, abbiamo incontrato in poco tempo la svolta a sinistra dove ha inizio il sentiero 542 che sale fino al rifugio. Ed è qui che il mio entusiasmo si è un po’ gelato. Su una bella targa lucida era chiaramente scritto che la via che si dipanava da lì era un sentiero per escursionisti esperti. Ora, quando si pensa a un escursionista esperto ci si immagina uno che sa dove mettere i piedi, uno che ti sa snocciolare ogni minima differenza tra ciaspola e rampone, tra suola Vibram e suola Contagrip, uno che in montagna c’è praticamente nato e che ti sa indicare cima per cima neanche fosse Google Maps. Insomma non vengo in mente io. Soprattutto non viene in mente la versione di me sul Vajolet, ossia la me che era stata sulle Dolomiti per un totale di due giorni. Due giorni, signori e signore! Ecco, io non ero un’escursionista esperta e ho tenuto subito a specificarlo. Il Signor Coso ha fatto più o meno spallucce e mi ha giurato che ce la potevo fare. E siccome io sono un talento naturale insospettabile, così insospettabile che anche se mi ci vedi in montagna continui a dire “no, quella non è un talento naturale”, ce l’ho fatta davvero. 


Vista del Rifugio Vajolet e della vallata dal sentiero che porta al Rifugio Re Alberto

Il sentiero 542 si dipana tra ghiaia e rocce in un canale stretto tra Punta Emma e Cima Catinaccio. In realtà la via è alla portata di tutti, ma io dall’alto dei miei due giorni di esperienza mi sentivo Indiana Jones, solo che invece di scappare da un grosso masso mi arrampicavo su rocce bianche. Avanzavo con una tecnica sopraffina che ho brevettato con il nome di “stile Gollum”, che, mi giunge voce, fa ora concorrenza allo stile alpino. La tecnica è semplice: si avanza su piedi e mani agganciandosi a qualsiasi appiglio roccioso a portata di mano. Ero talmente “fiera” del mio nuovo stile che me ne sono uscita con una frase del tipo “sono come Gollum”. Ovviamente lo dicevo al Signor Coso, ma un perfetto sconosciuto che saliva pochi metri davanti a me scoppiò a ridere e ci tenne a confermare la mia affermazione. Grazie gentile e inopportuno sconosciuto! 

Durante la salita, in alcuni tratti, si incontra un cavo metallico utile soprattutto per gli escursionisti non troppo esperti. Sebbene non ci siano mai punti totalmente esposti, infatti, in alcuni tratti si passa a filo di un piccolo salto di quattro, cinque metri. Nulla di esagerato, ma cadere da lì non sarebbe comunque simpatico, soprattutto per le rocce pronte ad accoglierti. Cosa che a quanto pare, però, non impressionava particolarmente il piccolo mostriciattolo di neanche dieci anni che davanti a noi saltellava libero e spensierato, in barba a ogni cautela, ignorando deliberatamente il cavo e avvicinando sempre più il povero nonno urlante a un infarto letale.

Il bambino, comunque, è sopravvissuto, cosa che dimostra da un lato la sua enorme fortuna (avrà rapito un leprecauno e lo terrà legato in cantina, come minimo) e dall’altro la facilità di questo sentiero attrezzato che, nonostante dia il brivido dell’avventura, non espone a particolari rischi e si rivela un ottimo banco di prova per affrontare future vie ferrate

La salita verso il Rifugio Re Alberto

Dopo circa un’ora di salita si arriva così alla conca del Gartl dove, sulle sponde di un gelido laghetto, riposa comodamente il Rifugio Re Alberto (2621m) e dove si può riuscire a godere di uno splendido panorama sull'Alpe di Siusi. Non che serva spingere lo sguardo lontano per godere di una bella vista: la conca è circondata dalle maestose Torri del Vajolet, dalla Croda di Re Laurentino e dalla parete nord del Catinaccio

Il vero problema della zona, in realtà, è la fatica e il tempo per arrivarci. Insomma lassù c’eravamo solo noi che arrivavamo dal Vajolet e altri che salivano dalla ferrata di Passo Santner (che prima o poi anche il Signor Coso e io dovremo provare… appena accetto l’idea di tornare sul Vajolet). Portare cibo, acqua e altri beni di conforto lassù è complesso quindi contestualizzate la seguente frase: al Rifugio Re Alberto il pranzo non era un granché. Il ragù era risicato e la Coca Cola era più che altro caramello e acqua. Però, appunto, si può capire. Così come si capisce che la pressione dell’acqua lassù è praticamente zero quindi dal rubinetto più di un getto escono gocce e per lavarsi le mani ci vogliono praticamente 20 minuti.


Il Rifugio Re Alberto nella conca Gartl con accanto un laghetto

Il ritorno dal Rifugio Alberto


Quando siamo riusciti a finire di lavarci le mani e a pranzare siamo subito ripartiti di corsa verso casa perché eravamo un po’ stretti con gli orari della funivia.

La via di discesa è la stessa di salita: non c’è da dire molto a riguardo, se non che mentre avanzavamo tra le varie rocce il Signor Coso ha notato che non indossava più dei comodissimi ed efficientissimi scarponi da trekking, ma due papere che aprivano e chiudevano il becco a ripetizione. Ebbene sì: gli si erano scollate le suole di entrambe le scarpe, durante la discesa, in un sentiero attrezzato. Che fortuna! Non avevamo neanche nulla per rimediare, così è dovuto scendere a compromessi con le papere e avanzare con loro che facevano “qua qua” ad ogni passo. Il compromesso, comunque, ha funzionato perché non è caduto neanche mezza volta.

Tornati al Rifugio Vajolet, però, i problemi non erano finiti. Il mio ginocchio crea problemi soprattutto in discesa, motivo per cui mi ero munita di due bastoni da nordic walking essenziali per affrontare il malefico discesone che fino a qualche ora prima era il malefico salitone. Per motivi che ora non vi sto a spiegare, però, mi trovavo nella ridicola situazione di avere un solo bastone con me mentre l’altro era arrivato fino a Gardeccia ed era poi tornato senza di me a Campitello. Ho così cominciato, un po’ per fretta un po’ per tenere a bada il dolore, a camminare più velocemente possibile e a tratti a correre infilzando l’unico bastone a mia disposizione in ogni punto della strada. Immaginatevi la scena! Quando avanzavo in stile Gollum ero molto più elegante.

Comunque alla fine siamo arrivati agli impianti in tempo e siamo riusciti ad arrivare a Pera senza difficoltà. Questa escursione in Val di Fassa, però, non aveva ancora finito di giocare i suoi assi contro di noi. Per, forse, la prima e unica volta nella storia gli autobus trentini ci delusero. L’autobus che aspettavamo arrivò già pieno e si rifiutò di farci salire. Io avrei voluto spiegargli che venivo da Roma quindi per me non era un problema viaggiare nell’anfratto tra freno e frizione o sopra il tettuccio, ma non sembra che questa mia flessibilità potesse essere convincente per l’autista che ci lasciò a piedi. Per fortuna, però, il Dottor Uka era tornato a casa da tempo e si rese disponibile a venirci a recuperare in macchina guadagnandosi così una nomination alla beatificazione.

E quindi niente: la salita al Rifugio Re Alberto è veramente stupenda e, come si dice di solito, tutto bello e tutto buono, ma… dopo tutti questi imprevisti e questi dolori, c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di chiedermi perché odio il Vajolet? Piuttosto chiedetevi perché il Vajolet odia me.


Vista del panorama dalla conca Gartl verso le Alpi di Susi

Scheda dell’escursione:


Partenza: Rifugio Vajolet (a piedi) 
Arrivo: Pera (funivia)
Difficoltà: EE
Dislivello: 378 m
Durata: 3 ora
Sentieri: 542, 546 
Rifugi: Rifugio Re Alberto, Rifugio Vajolet, Rifugio Preuss, Rifugio Gardeccia

Tutte le foto sono del Signor Coso