venerdì 30 novembre 2018

L’ESCURSIONE AL RIFUGIO SENNJOCH HÜTTE

LA VOLTA DELLE SCUDISCIATE DEL SOLDATO


È da un po’ di tempo che non vi racconto un’escursione. Per questo ho pensato di ripartire da una di inaspettata bellezza: la mia prima escursione su una Seven Summit, nella Stubaital. Sto parlando dell’escursione al rifugio Sennjoch Hütte, da cui è poi possibile intraprendere la salita sull’Hoher Burgstall, la più piccola delle Seven Summit ma non per questo meno bella. 


Panorama all'arrivo dello Schlick2000
La vista della Schlick2000 al suo arrivo

L’arrivo alla piattaforma panoramica Stubai Blick


Il giorno dell’escursione al rifugio Sennjoch Hütte non era la prima volta che tentavo di prendere la funivia Schlick2000, al termine della quale ha inizio l’escursione. Il Signor Coso e io avevamo già provato a prenderla appena arrivati in Austria. Dopo un’oretta di riposo nel nostro appartamento, ché dopo otto ore di viaggio era il minimo, abbiamo fatto un salto a Fulpmes per prendere la funivia e andare alla Stubai Blick, la piattaforma panoramica forse più nota della valle. Ovviamente però l’oretta di riposo era un’oretta di troppo: siamo arrivati che la funivia chiudeva. Maledizione!

Visto il buco nell’acqua di qualche giorno prima il piano era semplice: prima di raggiungere il rifugio Sennjoch Hütte e da lì intraprendere la via per la vetta dell’Hoher Burgstall avremmo fatto un salto alla Stubai Blick. Purtroppo per noi, però, l’idea era venuta in mente anche a metà valle. Alle 9, appena la funivia ha aperto le porte, c’era già abbastanza gente da costringerci a condividere il nostro piccolo abitacolo da 6 passeggeri con 4 tedeschi. 4! 4 loro e 2 noi facevamo 6. Sapete invece cosa non facevamo? Respirare! O almeno io non respiravo. Prendevo solo fuoco e quasi collassavo per il caldo. A un certo punto, intrappolata in quella gabbia di vetro e fiamme infernali, ho contemplato anche l’idea di forzare il finestrino e buttarmi di sotto. Sì sarei morta, ma volete mettere quanta aria fresca avrei trovato mentre precipitavo? E poi lo dice anche Cassel ne La Haine: “il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.

Contro ogni previsione, però, non ho abbandonato l’abitacolo e, stringendo i denti, sono riuscita ad arrivare ancora viva alla fine della funivia a 2300 metri circa. Mi meriterei quasi un applauso.

A questo punto il peggio era passato: dall’uscita della funivia, prendendo a destra, in circa 10 minuti si raggiunge tramite un facile sentiero in quota la Panoramaweg Stubai Blick, una piattaforma a mio parere molto più bella della piattaforma Top of Tirol che avevamo visto pochi giorni prima. Soprattutto quello che la Stubai Blick ha e Top of Tirol no è un sentiero decisamente sui generis: panchine-statue di tutti i tipi (una di pietra, una a forma di cuore, un dondolo-seggiovia, due brutte cose di metallo sostenute da chele, che poi dovrebbero essere due noci sostenute da mani, etc.) si susseguono una dopo l’altra fino all’arrivo alla piattaforma. Per tutto il tempo io mi sono posta una sola domanda: ma perché? Ancora non l’ho capito. Davvero è questo quello che cerca chi fa trekking in Sud Tirol?

La bellezza della Stubai Blick è costituita soprattutto dalla sua triplice vista grazie alle tre sporgenze della piattaforma panoramica. E, ovviamente, tre sporgenze ma quanti angoli dove farsi mezza foto? Nessuno! L’ho già detto che c’era una bolgia che neanche l’Apple Store all’uscita dell’ultimo Iphone?

Piccola parentesi d’obbligo sulla Stubai Blick: proprio qui si può leggere la storia delle streghe della Stubaital e di come Fulpmes fuggisse il loro temporale e salvasse il suo raccolto suonando la campana e spingendo così il temporale sul paese vicino (un po’ infame questo Fulpmes se volete la mia!) e di come il paese vicino abbia tentato, senza successo, di corrompere Fulpmes per farlo smettere di suonare sta benedetta campana. E io mi chiedo una sola cosa: ma perché i vicini non si sono fatti pure loro una campana? Ma pure un campanello per lo meno. Bah!


L'inizio in salita del sentiero vero la piattaforma panoramica Stubai Blick
Il sentiero vero la piattaforma panoramica Stubai Blick

La salita sul Gipfelkreuz


La Stubai Blick è una strada senza uscita quindi per fare qualsiasi cosa bisogna tornare sui propri passi, lungo il sentiero 10, e raggiungere di nuovo la funivia.

Da qui si potrebbe intraprendere subito la strada per il rifugio Sennjoch Hütte e avrebbe anche senso perché a conti fatti la salita all’Hoher Burgstall non è proprio rapidissima. Se però siete masochisti o semplicemente vi credete Speedy Gonzales come noi potete decidere di concedervi un’altra piccola svolta e prendere il sentiero 3 che porta dritto per dritto a Gipfelkreuz. Cosa significa Gipfelkreuz è presto detto: Pizzo Croce. E indovinate cosa c’è in cima al pizzo? Un unicorno! No, scherzo, quello giusto in ufficio da me. Una croce, ovviamente!

Non immaginatevi Gipfelkreuz come chissà che montagna gigantesca. È piuttosto una piccola montagnola non troppo alta. E infatti la salita per arrivare in cima è davvero breve, ma pendentissima, ve lo assicuro! La peculiarità vera di questa salita (ebbene sì! Una particolarità doveva esserci pure qui) è che parrebbe che l’intero sentiero sia incastonato in un giardino botanico. Dico “parrebbe” perché in realtà io non è che abbia visto un granché di fiori particolari mentre salivo. Sì qui e là ci sono piccoli, piccolissimi fiorellini, un po’ più particolari di quelli di campo, ma nulla che avessi mai associato al concetto di “giardino biologico”. Magari, però, sono solo io che non capisco. 


Comunque sembra che l’intero Pizzo Croce sia votato alla piccolezza: piccola montagna, piccola salita, piccoli fiori e piccola cima dove non ci si entra proprio in più di due e stando vicini vicini. Insomma ho trovato il regno dei Lillipuziani, altro che Gulliver!


Panorama delle montagne della Stubaital dal rifugio Sennjoch Hutte
Panorama delle montagne della Stubaital dal rifugio Sennjoch Hutte

L’escursione al rifugio Sennjoch Hütte


Per ridiscendere da Gipfelkreuz dovrebbe esserci una ferrata. C’è persino un cartello a indicarla, ma il Signor Coso e io non l’abbiamo vista da nessuna parte: né quando eravamo in cima a Pizzo Croce né quando eravamo ai suoi piedi, da un lato o dall’altro. È la ferrata fantasma! E io che credevo che la ferrata di Schrödinger fosse l’Elferkofel!

Noi, comunque, nel dubbio siamo tornati sui nostri passi e ridiscesi verso la funivia per il sentiero 3. Okay che gli austriaci mentono sempre, ma se avessero detto il vero sulla klettersteig? Il Signor Coso e io non avevamo l’attrezzatura, quindi meglio non rischiare.

A questo punto non c’erano più svolte che ci potessero tenere lontani dal rifugio Sennjoch Hütte e quindi abbiamo preso il sentiero 2, un sentiero in quota che sulle prime era quasi piacevole. Il caldo intanto aumentava o per lo meno a me sembrava così. Grondavo sudore e mi sentivo andare a fuoco. La lieve salita che, passando sotto i sostegni per evitare la neve, ci portava avanti era quasi una benedizione per me. Giuro che ho pensato “grazie al cielo che da qui in poi la strada è così”, ma ormai avrete imparato no?! Nel momento in cui penso di essere salva, è lì che la strada si fa difficile!

Come da copione, infatti, a un tratto è iniziata una malefica salita, molto ma molto più faticosa e ripida del lieve pendio precedente, sotto il sole cocente che lentamente ha risucchiato ogni mia energia, ma soprattutto ogni voglia di vivere. Com’è che diceva Cassel? Il problema è l’atterraggio? Ecco! Ero atterrata! E per altro ero finita nel bel mezzo della versione austriaca del Monte Camicia. Maledizione!

Per rendere più “divertente” il lento ma inesorabile rosolare della carne e l’ancora più ineluttabile deterioramento dei nervi, sono comparsi d’improvviso, protagonisti indiscussi della salita, degli arbusti spinosi che, sull’attenti, affollavano il sentiero sia a sinistra che a destra costringendoci a passare in mezzo. La scudisciata del soldato! Giuro! Specie perché io ero con i pantaloncini corti e ogni mezzo passo era un “ahi!” e un salto dall’altro lato dove però, puntuale come un orologio svizzero, trovavo un altro arbusto e di nuovo “ahi!” e salto e così via all’infinito. Alla fine sarei quasi potuta sembrare un cactus gigante. Spine 1, me 0.



La cosa più bella comunque sapete qual è stata? Che quando il Signor Coso ha letto il sottotitolo di questo articolo (La volta delle scudisciate del soldato) mi ha chiesto “quale soldato?”. Il che significa, essenzialmente, che la mia metamorfosi in cactus è passata totalmente inosservata. Sono mortalmente ferita da questa distrazione del Signor Coso. Ero una donna-cactus bellissima! Spinose come me non ce n’è in giro!

Ad ogni modo superati gli spinosi arbusi in poco tempo abbiamo raggiunto il rifugio Sennjoch Hütte dove ci siamo fermati qualche minuto a riprendere fiato (sì, io stavo morendo. Il Signor Coso come al solito mi sbatteva in faccia i suoi mesi di allenamento non mostrando neanche un sospiro in più del solito). Nel frattempo abbiamo controllato il meteo: non volevamo imbatterci in un diluvio universale. Questione importante, perché da qui in poi dovevamo attaccare la via per l’Hoher Burgstall che ho nominato a ripetizione in questa storia, ma che vi racconto la prossima volta. In fin dei conti dopo 40 minuti di escursione (senza contare il sentiero per lo Stubai Blick) un attimo di pausa me lo potrò pure prendere no?! Ecco, una “pausetta” di una settimana e poi vi racconto la mia prima salita su una Seven Summit: l’Hoher Burgstall!


Il rifugio Sennjoch Hutte
Il rifugio Sennjoch Hutte

Scheda dell’escursione:

Partenza: Fulpmes (funivia)
Difficoltà: E
Sentieri: 3, 10, 2
Rifugi: Rifugio Sennjoch Hütte

Le foto sono mie e del Signor Coso

venerdì 16 novembre 2018

4 MODI PER PREVEDERE IL METEO

OSSIA QUALCHE INFO CHE SAREBBE TORNATA UTILE ANCHE A NOÈ


Ci sono un paio di cose che non so fare: leggere l’orologio (ebbene sì!) e capire se 16 gradi vuol dire che farà freddo o caldo. Giuro! Non ne ho proprio idea. Ammetto però che negli ultimi anni sono un po’ migliorata; no, non con l’orologio. Se c’è una cosa, in fin dei conti, che un alpinista deve saper fare è prevedere il meteo per cui un po’ sono dovuta migliorare. Solo un po’ eh! Ma almeno qualche cosa l’ho imparata. Per cui, per tutti i meteorignoranti come me, ecco qui le mie pillole di saggezza da quattro soldi.

Foto di Jplenio, fonte pixabay.com

Saper leggere il bollettino metereologico


La prima cosa che si deve imparare quando si fa trekking è leggere il bollettino meteorologico. L’estate in cui il Signor Coso e io siamo stati in Val Badia il bollettino è stato praticamente il nostro miglior amico. Lo consultavamo ogni giorno per sapere quando saremmo finalmente potuti andare sulla Tridentina e grazie a lui abbiamo evitato di prenderci un paio di diluvi universali.

All’epoca, però, io ero completamente incapace di leggere quel foglietto che giorno dopo giorno ci prometteva di prevedere pioggia, vento e sole con un’esattezza veramente sorprendente. Per fortuna per me, però, c’era il Signor Coso che oltre a saper leggere le mappe (sì, io non so fare granché nemmeno questo) e l’orologio, sa leggere il bollettino. Ma se voi non aveste la fortuna di avere un vostro Signor Coso? D’altro canto non li fanno proprio in serie! Ecco allora un piccolo glossario:

  • la pressione atmosferica è il carico esercitato dall’atmosfera sulla superficie terrestre. L’alta pressione significa bel tempo, la bassa pressione invece meteo instabile
  • il rain rate è la quantità di pioggia che potrebbe cadere in un certo periodo di tempo con precipitazioni di intensità costante. Un rain rate minore di 10 mm/h vuol dire precipitazioni deboli, uno maggiore di 100 mm/h invece promette precipitazioni forti
  • il wind chill e l’heat index indicano la temperatura percepita dal corpo umano in condizioni differenti. La temperatura che noi percepiamo, infatti, non è precisamente la temperatura reale. Ci sono vari fattori che possono farci percepire una temperatura più alta o più bassa. Nel caso del wind chill il malefico colpevole è il vento, in quello dell’heat index è per lo più l’umidità.
Cosa significhi avere a che fare con il wind chill io l’ho purtroppo scoperto sulla mia pelle sul Monte Prena in una giornata in cui faceva veramente freddo, ma in cui soprattutto il vento faceva sembrare tutto ancora più freddo. Un paio di volte ho creduto di star per diventare un ghiacciolo. E, d’altro canto, la contrattura che mi è poi venuta alla gamba ricordava molto un ghiacciolo, quindi forse non ero neanche così lontano dalla verità. Per cui voi che potete fate buon uso dei consigli di un ghiacciolo: informatevi sempre sul meteo e sul vento che ci sarà. Ne va del vostro essere un non-ghiacciolo!


Prevedere il meteo grazie alle nuvole


Mia madre, che è una montanara ma che soprattutto ha sempre molta cura di non fomentare la mia naturale ansia devastante, ogni volta che vado a fare trekking mi ricorda che “in montagna il tempo cambia velocissimamente!”. È il suo dolce modo per ricordarmi che vive nel panico ogni volta che io decido di andare un po’ troppi metri sul livello del mare. Non che la faccia stare meglio quando sto proprio al livello del mare, ma questa è un’altra storia.

Purtroppo per me, ma pure un po’ per voi, ha ragione: la montagna è volubile, un attimo prima c’è il sole e quello dopo ti passa davanti Noè sull’arca (e non ti dà nemmeno un passaggio, il maledetto!). E quindi come fare? L’unica soluzione è stare con il naso all’insù e cercare di prevedere quando arriverà la fine del mondo. Per fortuna un indizio ce lo abbiamo, e no, non sto parlando dei reumatismi di vostra nonna, anche se pure quelli possono essere un ottimo uccellino nella miniera: le nuvole.

Esistono vari tipi di nuvole e ognuno di loro ci dice qualcosa del tempo che stiamo per incontrare. Vi suonano familiari i nomi “cumuli”, “cumulinembi”, “cirri” e “cirrocumuli”? Lo so che state pensando: “diamine! Dove ho messo il libro di scienza della terra di quando andavo alle medie?”. Ve lo dico io: nell’immondizia, con ogni probabilità. Chi l’avrebbe mai detto che c’era dentro un’informazione importante per il trekking eh!? Per fortuna vostra oggi mi sento tanto professoressa delle medie quindi vi rinfresco la memoria, poi però qualcuno mi deve regalare una mela eh!
  • I cumuli sono sostanzialmente quei bei batuffoli di cotone che vi fanno sempre vedere in cielo dinosauri, elefanti e Igor Stravinsky. Se ne stanno sempre nel cielo azzurro perché sono indice di tempo stabile
  • II cumulinembi sono una brutta evoluzione dei cumuli. È quando diventano scuri e si allungano e vogliono dire una sola cosa: a breve ci sarà un temporale, quindi se li vedete mi spiace per voi; 
  • I cirri sono praticamente i corridori del cielo. Vanno più veloce di Bolt, ma a differenza sua hanno la forma allungata di riccioli o fiocchi. Non promettono bene neanche a loro, ma a differenza dei cumulinembi vi danno il tempo di cercare un riparo: il tempo peggiorerà nel giro di 15/18 ore
  • I cirrocumuli… beh! Loro sono facili da spiegare. Sapete come si dice, no?! Cielo a pecorelle, pioggia a catinelle. Ecco! È dei cirrocumuli che si parla, perché loro annunciano pioggia imminente.
Capire come cambierà il tempo guardando le nuvole non è particolarmente difficile. Insomma se ci sono riuscita io sul Col di Lana ci può riuscire chiunque. A parte Noè. A Noè non glielo insegnamo come leggere le nuvole. A lui non va detto niente. Neanche dove si nasconde il dodo, che non lo trova più. Quel maledetto di Noè non ci dà un passaggio? E noi gli facciamo estinguere il dodo, che si sa che è il suo animale preferito!

Prevedere il meteo con il barometro


A dire il vero esiste da tempo anche un piccolo strumento fatto ad hoc per prevedere il meteo. Stiamo parlando del barometro, uno strumento in grado di registrare le variazioni della pressione atmosferica. Ci sono diversi aggeggini tecnologici (orologi, GPS etc.) che ormai lo hanno integrato, quindi forse un barometro vero e proprio non lo avete mai visto. Comunque se vi capita di doverlo leggere la regola generale è: se la pressione sale il tempo sarà buono, se la pressione scende si avrà cattivo tempo in un modo o nell’altro. Questo perché le masse di aria più fredda si spostano verso il basso, creando zone di alta pressione (le famose “anticicloniche”) e portando quindi il bel tempo, mentre l’aria più calda tende a salire creando zone di bassa pressione (le “cicloniche”) e causando il maltempo. Facile no?! Sono quasi sicura che anche questa roba ce l’hanno insegnata alle medie, ma io non me la ricordavo più, non so voi.

I migliori siti per vendere il meteo


C’è poi un’ultima opzione da considerare per conoscere il meteo: i siti web! O anche le app se preferite. Insomma il caro vecchio web e la cara vecchia tecnologia. Perché se Noè è un raccomandato con suggerimenti dai piani alti anche noi possiamo scoprire qualcosa senza faticare troppo.

I suggeritori che preferisco io sono:
  • 3BMETEO, un sito molto affidabile che mi ha saputo dare ottime previsioni sia in Italia che in Svizzera e Austria
  • ILMETEO, un sito e un’app a cui mi affidavo prima di scoprire 3BMETEO e che nel complesso non è male
  • METEOAM, il servizio meteo dell’Aeronatutica Militare che sbaglia di rado
Nonostante la mia ossessione per il tre vi aggiungerò un ultimo sito meteorologico perché è un’ottima fonte da prendere davvero in considerazione: METEOTERAMO.IT, una fonte affidabile per chi fa trekking sul Gran Sasso perché dà anche il clima in vetta. Qualche volta sbaglia, ma nel complesso non è male.

Foto di Paul Gilmore, fonte Unsplash
Ecco qui tutti i miei consigli da quattro soldi. Non saranno tanto, ma è più di quello che vi offrirebbe Noè: lui sa solo costruire un’arca che poi parcheggia pure in vetta a una montagna. Ma dimmi tu se si può considerare okay come modo di scalare!

venerdì 9 novembre 2018

LA CONQUISTA DEL K.O.

LA FOLLE STORIA DELLA CONQUISTA DEL MONTE PIÙ ALTO DEL MONDO


Se vi chiedessi qual è il monte più alto del mondo sono sicura rispondereste tutti quanti l’Everest, ma vi sbagliate. Il monte più alto del mondo è il K.O., almeno stando al libro che mi è stato meravigliosamente regalato il natale scorso: La conquista del K.O.
Lo conoscete? No?! Non sapete cosa vi state perdendo!

Uno scalatore all'alba con la piccozza alzata
Foto di Fxxu, fonte: pixabay.com
La storia dietro La conquista del K.O.

La conquista del K.O.” è una delle pietre miliari della letteratura di montagna, forse l’unico romanzo umoristico nella rosa delle opere sull’alpinismo. Normalmente gli alpinisti leggono e scrivono resoconti sulle loro conquiste e le loro avventure, ma “La conquista del K.O.” è una piccola, specialissima, spettacolare eccezione. E sapete soprattutto perché è un’eccezione? Perché non è stato scritto da un alpinista!

È il 1956 quando William Ernest Bowman dà alle stampe la sua prima opera: “The Ascent of Rum Doodle”, letteralmente “L’ascensione dello Scarabocchio Strambo”. Un titolo, un programma, che per altro la traduzione italiana ha brillantemente mantenuto.

Fino a quel momento questo ingegnere inglese non si è mai spinto oltre le vette britanniche (eccetto una piccola vacanza in Svizzera) e dell’alpinismo ha solo una conoscenza teorica. Di ramponi, piccozze e ghiaccio himalayano è totalmente digiuno. Capita, però, che legga i giornali e negli anni Cinquanta le grandi conquiste sono in vetta, non nello spazio: uno dopo l’altro quasi tutti gli Ottomila sono conquistati. Al 1956 si sono già fatti scalare l’Annapurna (1950), il Nanga Parbat (1953), l’Everest (1953), il K2 (1954), il Cho Oyu (1954), il Makalu (1955), il Kangchenjunga (1955), il Manaslu (1956), il Gasherbrum II (1956) e il Lhotse (1956). Così Bowman, che se fosse nato dieci anni dopo avrebbe potuto benissimo scrivere un libro umoristico fantascientifico, scrive una storia paradossale e umoristica sulla conquista del monte più alto del mondo: il K.O. appunto.

Sulla carta il bestseller è chiamato; e invece non succede. Il romanzo comincia a girare tra gli alpinisti e diventa un piccolo cult, ma non fa mai veramente il botto. La prima edizione va fuori commercio e diventa introvabile senza portare a una seconda pubblicazione. Bowman resta un autore misconosciuto. Tra gli alpinisti si diffonde la convinzione che sia in realtà lo pseudonimo di un qualche grande alpinista. Il libro viene passato di mano in mano, fotocopiato, letto da molti senza che i giornali ci facciano caso. Bowman pubblica un altro libro, di nuovo di non molto successo, e continua la sua vita tranquilla nella campagna inglese. Negli anni sessanta scopre con stupore che degli esploratori australiani hanno usato nomi del suo libro per un’esplorazione in Antartide e più o meno nello stesso periodo a Kathmandu viene aperto il ristorante Rum Doodle, tuttora aperto e con incredibilmente moltissime recensioni italiane sulla sua pagina TripAdvisor (e chi se lo aspettava!).

Questo è il massimo di successo che questo piccolo gioiello riesce a raggiungere prima che il suo autore muoia. Bowman si spegne negli anni Ottanta senza sapere mai veramente la passione che la sua prima opera ha saputo generare in quel mondo che con tanta maestria aveva voluto parodiare e, soprattutto, senza sapere della nuova edizione del 2001 che avrebbe dato nuova vita a “La conquista del K.O.”.

Edizione italiana di La conquista del K.O.
L'edizione italiana di La conquista del K.O.
La trama di La conquista del K.O.

La conquista del K.O. è la storia di una spedizione audace e scriteriata. Un piccolo gruppo di “alpinisti” scombiccherati e a loro insaputa incompetenti parte per l’Himalaya dove si trova la vetta più alta del mondo, ancora non conquistata da nessuno.

Il K.O. batte l’Everest a mani basse. È alto 40.000 piedi e mezzo, che a conti fatti dovrebbero essere 12.192 metri e 30 centimetri (sono i 30 centimetri quelli che fanno la differenza!). L’Everest è 8.848 metri. K.O. 1, Everest 0.

Il gruppo dei nostri antieroi ne ha per tutti i gusti: c’è Legaccio, il capostazione ingenuo e poco perspicace che non sa capire né gestire i suoi uomini, Jungle, il navigatore con lo stesso mio senso dell’orientamento che saprebbe finire sulla vetta del K.O. solo se avesse intenzione di raggiungere invece il fondo della Fossa delle Marianne, Wish, lo scienziato che insegue la grande scoperta della sua vita ma che a cui sfugge proprio il concetto stesso di scienza, Constant, il linguista esperto di vernacoli locali ma totalmente incapace di farsi comprendere, Prone, il medico perennemente malato, Shute, il fotografo che non riesce mai a scattare una foto e Burley, il responsabile delle vettovaglie che, neanche a dirlo, non sa minimamente esserne responsabile. E ad accompagnarli ci sono troppi (veramente troppi, a causa di un “piccolo” misunderstanding causato da Constant) portatori yogistani, gli indigeni del luogo, tra cui spicca l’inquietante cuoco Pong i cui pasti sono talmente terribili da spingere i nostri “alpinisti” a fuggire sempre più verso la vetta ogni qualvolta lui li raggiunga nei vari campi.

Insomma già così è una ricetta da ridere, ma se lo volete sapere è il finale che vi lascerà piegati in due. Il finale vale davvero tutto il libro, peccato solo che non ve lo possa raccontare: spoiler! Vi toccherà leggervi tutto il romanzo per scoprirlo.   


Recensione di La conquista del K.O.

“La conquista del K.O.”, insomma, è una parodia imperdibile e unica nel suo genere. Con uno stile semplice e auto-ironico prosegue la gloriosa tradizione dell’umorismo inglese non costringendovi mai allo slogamento della mandibola per troppe risate, ma paralizzandovi quanto meno il viso in un ampio sorriso a 32 denti.

Unico piccolo cruccio è che “The Ascent of Rum Doodle” andrebbe letto in lingua originale perché Bowman fa ampio uso di giochi di parole che la traduzione italiana riesce a conservare solo in parte. Basti pensare che Jungle, Wish, Constant e tutti gli altri sono nomi parlanti, ad esempio Burley (il nome del responsabile delle vettovaglie) significa “corpulento”.

Nonostante questo, comunque, “La conquista del K.O.” è uno di quei libri che si leggono con facilità e che dopo averli finiti non ti fanno per niente pentire del tempo che gli hai dedicato. E poi non ci si può mica sempre prendere sul serio no?! Si dovrà/potrà anche ridere quando si parla di alpinismo!

Due uomini guardano la vetta innevata di fronte a loro
Foto di Free-Photos, fonte: pixabay.com
Scheda del romanzo

Autore: William Ernest Bowman
Titolo originale: The Ascent of Rum Doodle
Traduzione: Alessandra Quattrocchi, Maurizio Ginocchi (con la collaborazione di Gianni Battimelli)
Genere: Romanzo umoristico
Editore: Corbaccio
Anno dell’edizione italiana: 2016

La foto del romanzo è mia.

venerdì 2 novembre 2018

L'ESCURSIONE ALL'EREMO DI POGGIO CONTE

LA VOLTA CHE UN CANE ERA INDECISO SE INVESTIRCI O SBRANARCI… O TUTTE E DUE


Chiariamo una cosa: il trekking non è bello solo quando si arriva su vette altissime. Ci sono certe piccole grandi meraviglie qui in Italia che sono alla portata di tutti. Basta avere la pazienza di andarle a scovare, perché sono ben nascoste. Oggi voglio aiutarvi a scoprirne una: l’escursione all’Eremo di Poggio Conte, un sentiero pianeggiante, non troppo lungo, facilissimo e tranquillissimo, perfetto per tutti.


L'Eremo di Poggio Conte e la cascata che lo affianca
Vista dell'Eremo di Poggio Conte e della sua cascata

A caccia dell’Eremo di Poggio Conte


A essere onesti il Signor Coso e io non eravamo esattamente alla ricerca dell’eremo quando ci siamo imbattuti in lui. Non che lo avessimo trovato di improvviso, lo ammetto, ma il fatto era che semplicemente avevamo un weekend libero, una vaga idea di passarlo sul Lago di Bolsena e un amico di famiglia del Signor Coso che essendo del luogo ci ha dato due (ottimi) consigli:
  1. di andare a mangiare in uno squisito ristorantino di Laterna, “La cantina del Mago”, famoso soprattutto per il sopralardo che ha fatto venire tipo gli occhi a cuoricino al Signor Coso che, meno bastian contrario di me, si è mangiato anche il secondo e non solo il primo (ci tengo a precisare che la menzione di questo locale non è in alcun modo una pubblicità voluta. È solo che mi è proprio piaciuto a bestia, e basta!); 
  2. di farci un paio di ore di passeggiata nel bel mezzo del nulla per vedere una delle bellezze meno conosciute del viterbese: l’Eremo di Poggio Conte
Ovviamente quello che ha spinto noi ad andare è stato il ristorante, mica l’eremo! E fra i due, se proprio lo volete sapere, quello che ci ha fatto più perdere è stato sempre lui: il ristorante. Laterna è un dannato labirinto di stradine talmente pendenti che tra poco la macchina ci lasciava per strada! Alla fine ci è toccato parcheggiare ammassati a un muro, su di una pendenza del 200% e metterci a cercare a piedi sto maledetto ristorantino. Se ci volete andare io ve lo dico subito: parcheggiate alla prima occasione buona, pure al paese accanto, che tanto non c’è speranza di arrivare in bocca al ristorante con la macchina, ma manco di arrivargli vicino.

Fatto sta che il giorno dopo, data l’esperienza con La cantina del Mago, che doveva essere la meta facile da trovare, il Signor Coso e io avevamo un po’ di dubbi di riuscire a trovare questo romitoro dell’anno Mille, più o meno. Che poi se non lo sapeste, perché magari siete ignoranti come lo ero io fino a un minuto fa, romitoro o romitorio è un sinonimo di eremo. E pure per oggi la parola del giorno è andata!

A quando risalga veramente l’eremo non è dato saperlo. Ciò che sappiamo è che la sua prima testimonianza scritta risale al 1027 d.C., ma che probabilmente lo stile che si può godere oggi gli è stato dato tra il XII e il XIII secolo. Che poi a voler essere precisi va detto che non è proprio vero che lo stile che vediamo oggi è quello originario. Prima c’erano anche degli affreschi degli apostoli che io non ho visto neanche di striscio: nel 1964, molto prima che nascessi, ne sono stati trafugati 6, il che ha portato inevitabilmente lo spostamento dei restanti nel Museo Civico di Ischia di Castro, dove tuttora sono esposti.

Quindi se volete andare a vedere gli affreschi andate al museo; se invece volete andare a vedere l’Eremo di Poggio Conte, anche detto San Colombano, ora vi spiego come fare. 

Il fiume ai piedi dell'Eremo di Poggio Conte
Il fiumiciattolo e le panchine nella conca ai piedi dell'Eremo di Poggio Conte

La via per l’Eremo di Poggio Conte


L’Eremo di Poggio Conte sorge nel territorio comunale di Ischia di Castro (VT), in una zona dove in passato sono state ritrovate anche tombe etrusche a camera intagliate che nel medioevo furono tramutate in camere per i monaci.

Il punto di attacco dell’escursione è un po’ misterioso perché, in sostanza, è uno slargo lungo la strada non meglio identificato. Noi abbiamo avuto fortuna: quando siamo arrivati in zona c’erano già due macchine nello slargo e delle persone (di ritorno dall’escursione) a cui chiedere. Per aiutare voi, invece, il Signor Coso ha reperito le coordinate GPS: 42.518227, 11.613413. Messa così sembra una grande avventura no? Tipo il giro del mondo in ottanta giorni. Solo che questo giro è un po’ più corto. Giusto un po’!
Dallo slargo si intraprende un sentierino sterrato che quasi fa precipitare dentro casa di uno. Non proprio dentro casa, a dire il vero: dentro la fattoria. Non che questo sia così sorprendente: sulle Dolomiti capita abbastanza spesso di imboccare nei recinti altrui, ma qui in Centro Italia siamo un po’ più contenuti in casi simili. Per questo si svolta a destra e si fa un giro più ampio evitando di invadere la proprietà privata di un povero viterbese sconosciuto. Si ridiscende quindi oltre la fattoria e si prosegue su un terreno anche un po’ fangoso fino a raggiungere il fiume Fiora, un lunghissimo fiume che quasi fa invidia al Danubio (83 chilometri!) e che nasce dal bel Monte Amiata.
A questo punto sbagliare strada è impossibile! Si prosegue, lasciandosi il Fiora a destra, sul lungofiume, una strada pianeggiante e sassosa, quasi una wanna-be-spiaggia, scoperta e senza una traccia d’ombra. E siccome siamo lucci ricordatevi: noi andiamo nel senso della corrente. Seguiamo il fiume!

Sarà che tutti gli altri sono salmoni, ma vi giuro che non abbiamo incontrato una sola anima viva. Il che, sommato alla totale mancanza di cartelli, ci ha cominciato a far sorgere un piccolo, insignificante dubbio: ma non è che avevamo totalmente sbagliato strada? Cosa che, come prevedibile, aveva degli ovvi corollari: come era possibile? Stavamo andando a tuffarci nel Mar Tirreno? C’era modo, lungo la strada, di barattare le scarpe da trekking con dei braccioli? I tipi alla piazzola avevano mentito? Erano dei sadici che come hobby mentivano sui sentieri escursionistici? Dove diamine stavamo andando? Saremmo finiti nella pampa uruguayana? (sì era un ovvio corollario anche la pampa). Insomma, per farla breve, stavamo nel bel mezzo di un attacco di ansia e tachicardia. E io lo davo pure a vedere. Tanto eravamo solo il Signor Coso e io e voi pensate davvero che io che sclero sia una novità per il Signor Coso? Su dai! Siamo realistici!

Fatto sta, comunque, che dopo un po’ che si procede si raggiunge il bosco dove bisogna obbligatoriamente immergersi, tanto non è che ci siano altre strade alternative. Nonostante il bosco sia un intrigo di fitto sottobosco, rocce muschiate ed erba ovunque, o forse proprio per questo, vi posso assicurare che è probabilmente la parte più bella di tutto il sentiero! Sarà pure perché in un paio di punti ci sono anche dei piccoli pontili di legno per attraversare qui e là smilzi tratti del fiume Fiora.
A questo punto c’è solo un’ultima svolta a sinistra prima di imboccare una conca rocciosa dove trionfa una cascatella che il Signor Coso si ricorda essere piccola e secca e invece io ricordo normale e scorrevole. Chi ha ragione? Boh! Saranno passati quattro anni da quando siamo stati laggiù! Quello che ci ricordiamo entrambi, comunque, sono una serie di panchine messe a semicerchio, come se la conca fosse un piccolo anfiteatro naturale.

Attraverso una scaletta a sinistra è, alla fine, possibile raggiungere questo isolato eremo, una grotta di due stanze ricavata nella roccia. La sua vista toglie il fiato per quanto è suggestivo. In una delle due stanze attualmente c’è un presepe, ma la vera bellezza è il soffitto decorato da incisioni e dipinti floreali e geometrici. Di solito gli eremi non hanno decorazioni del genere, motivo per cui qualcuno ha supposto che l’Eremo di Poggio Conte sia appartenuto, per lo meno all’inizio, nel XII secolo, all’Ordine dei Templari. Se già pensate, però, di andare lì a caccia del Santo Graal lasciate perdere: quello lo trovate giusto nel Codice da Vinci. 



Il ritorno dall’Eremo di Poggio Conte


La via del ritorno è la stessa dell’andata. Sapendo già che era la via giusta non mi avrebbe dovuto preoccupare molto, ma a quel punto il sole stava tramontando, il sentiero era sempre più deserto e dall’altra parte del fiume si sentivano sempre più spesso gli spari dei cacciatori per cui… niente! Sono morta di tachicardia pure sulla via del ritorno. Che vita grama quella dell’escursionista!

Comunque a conti fatti quest’escursione è stata veramente fattibilissima, al punto che non ricordo neppure se avevo le scarpe da trekking o meno. Certo è che, se non è necessario preparare chissà che tipo di zaino (però ricordatevi che lungo il sentiero non c’è alcuna traccia di ristoro), può essere una buona idea mettersi le scarpe da trekking: il fango è veramente tanto!

Tornati alla macchina credevamo di essere riusciti a scamparla senza troppi problemi, ma ignoravamo che il mostro finale era a un passo da noi. Neanche avevamo percorso un paio di metri che un pastore maremmano si è fiondato contro di noi da uno dei pascoli che costeggiano la strada e ci ha cominciato ad abbaiare contro con la bava alla bocca. Giuro: era furioso! Ci ha persino inseguito in quello che non ho ben capito se era un tentativo di essere investito o di investire noi. Solo una cosa posso dire: a un certo punto mi sono pure chiesta se il cane poteva essere in grado di aprire la macchina. Era talmente arrabbiato che sembrava quasi volerci provare. Non lo nascondo: io nel dubbio ho chiuso tutte le portiere. Però pure tu cane: noi eravamo in strada mica nel tuo pascolo tra le tue pecore! Mamma mia come sei esagerato! 


Alberi intorno all'Eremo di Poggio Conte
Il miracolo dell'Eremo di Poggio Conte: alberi apparentemente sani con le radici all'aria

Scheda dell’escursione:


Partenza: Ischia di Castro, coordinate GPS "42.518227, 11.613413"
Arrivo: Ischia di Castro, coordinate GPS "42.518227, 11.613413"
Difficoltà: E
Durata: 2,30 ore circa


Le fotografie sono mie e del Signor Coso. Le riprese del video le ha fatte il Signor Coso, il montaggio è mio. La musica del video è free copyright e viene dal sito Purple Planet Music