venerdì 22 febbraio 2019

9 CONSIGLI PER PRENDERSI CURA DEI TUOI PIEDI

OSSIA COME COMBATTERE E SOPRAVVIVERE ALLE VESCICHE (E MAGARI PURE VINCERE LA GUERRA)

Scrivere questo post sarà per me una sofferenza, sappiatelo! Se c’è una cosa che davvero mi schifa al mondo (a parte il formaggio che detesto cordialmente) sono i piedi. Li odio! Se potessi li cancellerei dalla faccia della terra, ma purtroppo non posso. Per cui nel corso degli anni sono dovuta scendere a patti con la loro esistenza, soprattutto dopo aver cominciato con l’escursionismo. D’altro canto la cura dei piedi è un elemento base della vita di qualsiasi escursionista. Quindi, nonostante la mia sofferenza, ecco qui il mio piccolo compendio di consigli per prendersi cura dei tuoi piedi!


L’importanza della cura dei piedi durante le escursioni


Per quanto i piedi siano indubbiamente la nostra parte peggiore (probabilmente un ultimo piccolo screzio di qualche scienziato rettiliano, considerando quanto sono brutti) è importantissimo curarli fino alla nausea quando si fa trekking.

Queste orride estremità, infatti, sopportano tutto il nostro peso e, in aggiunta, anche quello dello zaino. Se poi si ha la sfortuna di poter essere solo “un escursionista della domenica” ogni trekking, anche il più piccolo, si trasforma in un inferno per loro. D’altro canto ogni cosa diventa migliore con l’esperienza e praticare l’escursionismo solo nel weekend, e magari - peggio ancora - solo in primavera ed estate, non è il modo migliore per evitare dolore, vesciche e gonfiori.

La sensibilità dei piedi, in fondo, è piuttosto alta anche quando sono ben chiusi dentro gli scarponi. Registrano ogni minima variazione di pendenza o di tipo di terreno - che si passi dalle foglie secche ai ciottoli o dal fango alla ghiaia - e ne pagano inevitabilmente le conseguenze. Magari voi avrete i piedi d’amianto, ma è difficile passarla sempre liscia quando si fa trekking per un po’. Non è mica necessario avere i piedi di frolla come il Dottor Uka, che già dopo la prima passeggiata sul Sassopiatto aveva più vesciche che dita, per ritrovarsi a zoppicare per giorni interi. Quindi è importante prendersi cura dei propri piedi. Meglio, allora, seguire qualche semplice consiglio e non avere più problemi.



5 consigli per la cura dei piedi


Il fastidio principale di cui si può soffrire quando si fa trekking sono probabilmente le vesciche, che poi non sono altro che una reazione di autodifesa della pelle. Ah! Che bello il corpo umano che per difendersi ti fa vedere i sorci verdi dal dolore. Proprio intelligente questo corpo umano!

In sostanza quando c’è un eccessivo sfregamento si produce un accumulo di fluidi nell’area di attrito che evita il danneggiamento dell’epidermide. Come piccolo effetto collaterale, però, il siero produce una forte pressione che causa il dolore e, quando va bene, il fastidio.
Per fortuna curare i propri piedi per evitare o contenere le vesciche è piuttosto facile. Basta seguire qualche semplice regola:
  1. Fate regolarmente lunghi pediluvi in acqua calda massaggiando la cute con una pietra pomice. Al termine del pediluvio idratate la pelle con una crema o un olio specifico per i piedi. Potete non crederci, ma già questa piccola accortezza farà miracoli. Quest’estate io sono riuscita a sopravvivere senza nessuna vescica in 8 giorni consecutivi di trekking (5 escursioni e 3 ferrate) proprio grazie a un uso giornaliero di una crema all’Aloe, che è tipo il Santo Graal fatto pianta, mentre quel pollo del Signor Coso che si è rifiutato di usarla ne è uscito molto peggio, ve lo assicuro. Pollo!
  2. Se durante un’escursione iniziate a sentire un dolore o un bruciore fastidioso NON fate finta di niente e intervenite subito. Come si suol dire meglio prevenire che curare. E se proprio non siete riusciti a evitare un principio di vescica, procedere subito con una medicazioni tramite garza e cerotto di tela potrebbe riuscire a contenere il danno. L’importante, però, è ricordarsi a fine giornata di togliere la medicazione, disinfettare il piede e lasciarlo ad asciugare e a prendere aria.
  3. Se già sapete in partenza che soffrite di vesciche (a qualcuno deve pure toccare la pagliuzza corta) non fatevi cogliere impreparati: in farmacia o nei negozi sportivi più specializzati si trovano facilmente cerotti ad hoc o creme antisfregamento che possono prevenire la creazione delle vesciche.
  4. Se durante un’escursione incontrate un torrente o un lago prendetevi il tempo di immergere i piedi nella sua acqua fredda. In questo modo costringerete i vasi sanguigni e velocizzerete la circolazione diminuendo gonfiori e infiammazioni. Ci sono poche cose altrettanto piacevoli al mondo. Il Signor Coso e io abbiamo inzuppato i nostri piedini (si fa per dire, lui porta il 47…) almeno tre volte - al Lago Pian Palù, dopo la ferrata Fernau e dopo la salita al Promontorio del Circeo - e ogni volta lo abbiamo adorato. Dopo averli bagnati, però, bisogna sempre asciugarli bene; e questo vale sia in caso di sudore che nel caso di torrente/lago. Per questo è sempre bene portare con sé un asciugamano e dei calzini di ricambio.
  5. Nel malaugurato caso in cui non siate riusciti proprio a evitare queste maledette vesciche provate a resistere alla tentazione di esploderle senza alcuna necessità. Si chiama follia quella idea che vi sta passando in testa e che vi dice che esplodere la vostra vescichina è una buona idea. Fidatevi! Io vivo con questa follia tipo ogni due per tre. La scelta migliore che potete fare è lasciare che la vescica si riassorba da sola. E se invece è così grande e fastidiosa da doverla esplodere bisogna farlo con strumenti sterili e una giusta disinfestazione e medicazione. In caso di vesciche enormi meglio chiedere a personale esperto. E se invece esplode… munitevi di garze e disinfettante e giù di medicazione!

Non importa quanto vi prendete cura dei vostri piedi: se scegliete le scarpe sbagliate è tutto un cacchio. Trovare la scarpa giusta per il proprio piedi è essenziale. Per fortuna, però, anche per questo ci sono un paio di consigli che possono venirci in aiuto:
  1. Una stessa scarpa non va bene su qualsiasi terreno. Bisognerebbe scegliere sempre la calzatura in base al terreno e all’attività che si sta per fare. Ad esempio sulle vie ferrate è meglio usare una scarpa con una suola piuttosto rigida. In generale, comunque, io preferisco scarponcini alti alla caviglia, ma il Signor Coso, per esempio, non concorda con me. Diciamo però che se siete super goffi come me uno scarponcino alto può fare la differenza tra una passeggiata e una storta assassina. Inoltre ha come lato positivo quello di evitare l’allagamento della scarpa in caso di pioggia. Ve lo dico, però: se passate sotto una cascata non vi tengono all’asciutto neppure loro. Il Signor Coso e io lo abbiamo sperimentato sulla ferrata Hoellenrachen. Non è stato piacevole.
  2. La scelta della scarpa dipende anche dalla conformazione del piede. Un piede magro e uno con una pianta larga non sono affatto la stessa cosa. La mia peggiore piaga, ad esempio, è trovare una scarpa quotidiana che abbia senso con il mio piede: magro fino alla carestia ma non particolarmente corto. Soprattutto con i sandali è praticamente un terno al Lotto. Per fortuna, però, con le scarpe da trekking il problema non si pone così facilmente: la maggior parte dei marchi delle scarpe da trekking prestano molta cura a questi dettagli. Inoltre molti negozi di escursionismo hanno personale e strumenti più che professionali e adeguati per individuare la perfetta scarpa per ogni piede.
  3. La cosa che mi inquieta di più dell’arrampicata è che di solito tocca comprare le scarpette più piccole di un paio di numeri. Per fortuna con l’escursionismo non è così, anzi: meglio prendere le scarpe di un mezzo numero in più. Le vostre dita dovrebbero potersi muovere sempre liberamente e non andare mai a sbattere in punta. Se così non fosse finireste per avere un’unghia particolarmente nera. E anche qui, per esperienza personale, vi assicuro che non è carino e che ci mette mesi a passare. Meglio evitarlo. Però state attenti a non dare troppa libertà al piede. Se il tallone avesse troppo gioco finirebbe per generare attrito e in quel caso… bravi! Vescica!
  4. Anche il materiale della scarpa è una questione essenziale. Se ci si trova in climi freddi e in alta montagna la miglior scelta è il goretex, che garantisce impermeabilità e traspirazione. In generale, comunque, meglio la pelle per la tomaia (ossia la parte superiore della scarpa). La pelle assicura traspirazione e durevolezza.

Insomma, se spendete “due” soldi per le scarpe da trekking, vi munite di calze tecniche e curate attentamente i vostri piedi uscirete anche dall’escursione più lunga senza vesciche, saltellanti come una capretta e,soprattutto, con quelle piccole oscenità che si chiamano piedi super presentabili, pronti per qualsiasi sandalo e solo un po’ pallidini. Insomma, non è che facendo trekking si prenda proprio tutto questo sole...

venerdì 15 febbraio 2019

LA SALITA AL MONTE BRANCASTELLO

LA VOLTA CHE “CIAO, CIAO CAPPELLO, ADDIO!”

Nell’Appennino centrale ci sono dei trigemini di cui vi ho già parlato. Sono il trittico Camicia-Prena-Brancastello che più di una volta mi è capitato di incontrare sulla mia strada. Se Renato Zero non aveva mai considerato il triangolo… ecco, io l’ho fatto! E dopo essere morta due volte sul Monte Camicia e altre due dalle parti del Prena ho pensato fosse ora di fare stretta conoscenza con l’ultimo vertice di questo triangolino. Quindi ecco qui la mia salita al Monte Brancastello.

Panorama sulla via del Monte Brancastello
La vista sulla strada per il Monte Brancastello

L’avvicinamento al Monte Brancastello


Piccolo disclaimer iniziale: non mi ricordo quasi nulla dell’escursione al Monte Brancastello. Non riesco neanche a ricordarmi precisamente quando ci sono stata. Credo fosse primavera o estate e di certo era l’anno scorso. Il che significa che non è passato molto tempo. Quindi… le cose sono due: o il Brancastello non è stato nulla di che o la mia memoria fa veramente pena. Potrebbero essere vere entrambe. Comunque la premessa era necessaria per farvi capire perché ci saranno buchi di trama un po’ ovunque oggi.

A dire il vero, però, ora che ci penso mi sembra di aver tentato la salita al Monte Brancastello il weekend dopo l’escursione a Pizzo Cefalone, ottima esperienza che mi aveva lasciato l’idea che io potessi affrontare qualsiasi escursione come Fiocco di Neve, la capretta saltellante di Heidi. Non so perché dopo quattro anni di escursionismo ancora credo a fandonie come questa. Ad ogni modo, ovviamente, mi sbagliavo. Questo me lo ricordo bene. Ma andiamo con ordine.

Per raggiungere l’attacco di questa escursione abbiamo percorso la statale 117 bis, la strada che da Fonte Cerreto porta all’Altopiano di Campo Imperatore. Questa è una strada che conosciamo bene: è praticamente la strada più frequentata da chi va sul Gran Sasso, o da Mucciante. A differenza però di quando si va a mangiare gli arrosticini, in questo caso si gira a sinistra al bivio, direzione Osservatorio / stazione a monte della ferrovia / albergo Campo Imperatore. Insomma un po’ direzione la qualunque.

Superata la stradina che permette l’attacco alla salita alle Torri di Casanova, si raggiunge il primo tornante dove si imbocca un sentiero sterrato su cui si parcheggia quasi subito. Questo è l’inizio dell’escursione. Il sentiero sterrato continua, ma siccome si fa piuttosto stretto non parcheggiare il prima possibile sarebbe follia. È il momento di cominciare a camminare. D’altro canto siamo qui per questo, no?!

Cresta del Monte Brancastello
Vista dalla cresta sull'escursione per il Monte Brancastello

La salita al Monte Brancastello


Il parcheggio dovrebbe essere a circa 1805 metri dal livello del mare. Dicono che un segnavia su un sasso dovrebbe confermare questo fatto. Ma io non mi ricordo la vetta, volete che mi ricordi di un sasso? Fidiamoci di internet, allora, e andiamo avanti.

Dopo una mezz’ora di cammino sulla via sterrata si raggiunge Vado di Corno (1924 m), soglia tra l’Altopiano di Campo Imperatore e il versante teramano del Gran Sasso. Qui, a sinistra, si dipana la via per il Monte Aquila che ricorderete per una gloriosa puntata della rubrica #GiroGiroCoso, revival di Hot Shots. Ma noi non siamo in #GiroGiroCoso e soprattutto questo articolo non si chiama “salita al Monte Aquila”, per cui invece di girare a sinistra giriamo a destra e iniziamo il Sentiero del Centenario.

Il Sentiero del Centenario è uno dei sentieri più noti e rinomati dell’Appennino abruzzese e negli ultimi anni è stato anche piuttosto ristrutturato. Collega Vado di Corno con Fonte Vetica, il rifugio ai piedi del Monte Camicia, passando tra l’altro per il Monte Prena. Percorrere il Centenario significa prendersi quanto meno un weekend da passare sul Gran Sasso. In alternativa si può percorrere a pezzi e raggiungere la vetta del Monte Brancastello vuol dire percorrerne il primo tratto.

L’intero percorso è un sentiero in cresta che, però, non presenta particolari punti di criticità o di esposizione. Detta così può sembrare che l’escursione al Brancastello sia una passeggiata di piacere (e d’altro canto era quello il piano iniziale), ma in realtà è una continua, ininterrotta, incessante, interminabile salita. Inizia con una pendenza alla “io-ti-ucciderò” e finisce con una pendenza alla “sei-ancora-vivo?-aspetta-che-provo-di-nuovo-a-ucciderti”. In mezzo c’è un sali scendi più sopportabile, ma non fatevi ingannare.

La parte più critica di tutta l’escursione, però, non sono stati tanto i polpacci infuocati o i piedi gonfi (o il fatto che verso la fine mi sembra di aver persino barcollato dalla stanchezza), ma il cappello. Ebbene sì, la parte peggiore è stato il mio cappello nuovo. Non perché non fosse comodo (lo amo alla follia) o perché non stesse ricoprendo alla perfezione il suo ruolo (ossia evitare che mi ustionassi per la centoventesima volta la riga dei capelli), ma perché non ha smesso un solo attimo di tentare di spiccare il volo. Sembrava che si credesse l’uccellino azzurro. Ma io dico: dove diamine vuoi andare? Ma vuoi così tanto scappare da me? Che ti ho fatto di male signor cappello?

Nel mentre combattevo contro la fuga del mio cappello abbiamo superato la costa secondaria che, alla nostra sinistra, ci avrebbe condotto a Pizzo San Gabriele, una prima piccola vetta su cui molti salgono. Noi invece abbiamo tirato dritto lungo il nostro sentiero di cresta che ci portava sempre più lontano dal Corno Grande, un gigante stagliato continuamente alle nostre spalle. La sua vista dal sentiero è talmente bella e dettagliata che si riesce a vedere anche il Bivacco Bafile, un punto rosso in bilico su un vertiginoso sperone.

Dopo circa due ore e mezza di salita, alla fine, si arriva in vetta (2.385m). La cima è piuttosto piccola rispetto a quelle a cui il massiccio del Gran Sasso sa abituare i suoi escursionisti, ma è ugualmente presa d’assalto. Il risultato è che si sta schiacciati come alle sei di sera sulla metro a Roma. Consiglio da esperta: prendete la metro alle sette, che è meglio, e restate in cima al Monte Brancastello il meno possibile.


Vetta del Monte Brancastello
Vista dalla vetta del Monte Brancastello

Il ritorno dalla vetta del Monte Brancastello


Credevamo che la salita al Monte Brancastello sarebbe stata più leggera e più rapida. Ci sbagliavamo. Nonostante avessimo passato ben poco tempo sulla cima eravamo già in terribile ritardo sulla tabella di marcia. E questo non è mai un bene in montagna. Per fortuna, però, non era veramente tardi quindi un piccoli sfizio ce lo siamo potute togliere.

Prima di rientrare definitivamente alla base ci siamo incamminati per una delle crestine che si estendono verso Teramo. Da lì è possibile vedere lati del Sentiero del Centenario che solitamente, dalla base dell’Altopiano di Campo Imperatore, non si possono scorgere. É forse il suo profilo migliore, ed è talmente bello che si è meritato minuti interi di ammirazione. Quando abbiamo ripreso la via per casa era ormai passato un bel po’.

La discesa è per la stessa via di salita, il che ha significato nuova guerra per mettere in salvo il mio cappello ma non ustionarmi comunque la testa. Sono riuscita in entrambe le missioni. Un piccolo miracolo. Quel giorno non mi è riuscito nient’altro.

Inizialmente avevamo previsto di concludere l’escursione salendo sul Monte Aquila. Significava allungare terribilmente l’escursione, ma sarebbe stato carino. L’unico problema, però, è che io ero veramente stanca. Ero a tocchi alla partenza, figurarsi all’arrivo. Non ce l’ho fatta, semplicemente non ce l’ho fatta. Così abbiamo lasciato perdere il Monte Aquila e siamo tornati alla macchina. Però uno sfizio, alla fine, ce lo siamo tolti lo stesso: ci siamo andati a mangiare gli arrosticini. Perché non si è andati veramente sul Gran Sasso se non si va poi a mangiare gli arrosticini da Mucciante! 

Vista dal Monte Brancastello
Panorama visto dall'escursione del Monte Brancastello

Scheda dell’escursione:


Partenza: Altopiano di Campo Imperatore
Arrivo: Altopiano di Campo Imperatore
Difficoltà: E
Durata: 5 ore circa
Dislivello: 550m


Tutte le foto sono mie e del Signor Coso

venerdì 1 febbraio 2019

LA VISITA A CANALE MONTERANO

UNA STORIA DI STRADE SBAGLIATE, AUDI TESTARDE, PECORE INGOMBRANTI E IMPROVVISE LECCATE DI CANE


Qualche settimana fa vi ho raccontato della mia gita fuori porta in Ciociaria per vedere le Grotte di Collepardo e il Pozzo d’Antullo e l’Eremo di San Domenico e la Certosa di Trisulti. Così, per par condicio, mi è sembrato quanto meno giusto raccontarvi anche la mia visita a Canale Monterano. Fidatevi, questo borgo abbandonato a un passo dal Lago di Bracciano vale decisamente una visita e, nel mio e nel vostro caso, una storiella.


Canale Monterano al tramonto
Vista di Canale Monterano nella luce rosa del tramonto

L’avvicinamento a Canale Monterano


Sabato scorso è avvenuto un allineamento planetario che capita solo una volta ogni tremila anni: il Signor Coso si è ritrovato un weekend libero (e vi assicuro che con i suoi mille impegni è cosa rara), i nostri amici sono stati disponibili a un richiamo alle armi all’ultimo secondo e io mi sono ritrovata alla fine della settimana più lunga e faticosa dell’anno. Stando queste premesse e la sacra legge di Murphy che recita “se avrai bisogno di dormire come mai nella tua vita, ecco quello sarà il weekend perfetto per una gita fuori porta che tutti vorranno fare nonostante tu sogni solo un letto dove imbalsamarti per le prossime 48 ore” era ovvio che da qualche parte dovevamo andare.

Siccome io devo essere vagamente autodistruttiva o, quanto meno, masochista, ammetto che mi sono decisamente impegnata a organizzare questa uscita al punto che avevo proposto 4/5 posti diversi dove andare. Non mi ero però molto impegnata a informarmi su ognuno di loro così… siamo finiti nell’unico posto che non avevo proposto io: il borgo abbandonato di Canale Monterano.

Monterano, come in realtà si chiama il borgo, è un affascinante villaggio di ruderi che si erge su un’altura tufacea a ovest del Lago di Bracciano, a metà strada tra i Monti della Tolfa e i Monti Sabatini nel cuore della Riserva Naturale di Monterano. Il luogo abitato più vicino a questo angolo di pura meraviglia intrappolata tra presente e passato è il vero Canale Monterano, un paese a circa 2 chilometri di distanza e con una densità di bar non indifferente (ci ho passato sì e no cinque minuti e ne ho contati almeno 3 nell’arco di 10 metri).

Mi piacerebbe potervi raccontare con chiarezza la strada da fare per raggiungere Canale Monterano e da lì l’antica Monterano, ma la verità è che non ho la minima idea di quale sia la strada da fare. Dopo neanche 10 minuti dalla partenza ero già bella immersa nel mondo dei sogni (non temete: non ero io alla guida). Per cui no, non so proprio dove bisogna andare. Ho visto - sì - la strada che congiunge Canale Monterano con Monterano, ma ero ancora troppo rimbambita dal sonno per capirci qualcosa davvero.

Ciò che so con certezza è che ci sono due vie che portano all’antica Monterano da Canale Monterano: una attraversa il bosco ed è abbastanza malmessa da rischiare di lasciarci la macchina, mentre l’altra è decisamente più larga e più semplice. Cercando online ho trovato le indicazioni per arrivare a Monterano. Ve le scrivo qui sperando che siano quelle per la via giusta e non per la malefica strada ammazza macchina. Incrociate le dita!

Dal centro di Canale Monterano si prende una piccola via in discesa a sinistra della chiesa principale. La si percorre fino all’incrocio dove si gira a destra e, dopo un po’, si raggiunge un primo spiazzo. Continuando ad avere fede in questa strada (anche se più la scrivo e più mi ricorda la malefica via del bosco che alla fine noi abbiamo lasciato a metà) si raggiunge anche un secondo spiazzo dove una barra d’ingresso avverte di essere giunti a destinazione: qui si parcheggia e si inizia, davvero, la visita.

Aggiornamento: il Signor Coso mi ha detto che in effetti sì, quella è la malefica strada che ci ha lasciato a un passo dalla meta senza però portarci a destinazione. Allora fate così: percorrete tutto Canale Monterano e quando siete a metà strada con un altro paese di cui io ignoro il nome, ma il Signor Coso dice che si chiama Montevirginio (vedete voi se credergli o meno) prendete a sinistra (o almeno mi sembra fosse a sinistra) e seguite le indicazioni per l’antica Monterano.

Questa strada, che vi sto indicando così bene, è quella più ampia tra le due. Il fatto che sia più ampia potrebbe farvi pensare che sia ampia, ma non è così. Ci passa più o meno una macchina alla volta e molto spesso tocca andare indietro per far passare un altro. Nel nostro caso, ad esempio, una simpatica Audi che io ho sapientemente scambiato per una Mercedes si è fatta una cinquantina di metri in retromarcia per farci passare (ne sarebbero bastati anche dieci, ma lei ne ha voluti fare cinquanta). Dopo essere passati noi l’Audi era piuttosto convinta di poter procedere e quindi è ripartita. Si è fatta i suoi cinquanta metri e si è ritrovata di fronte la macchina del Dottor Uka. L’Audi ha guardato il Dottor Uka, il Dottor Uka ha guardato l’Audi: un inteso testa a testa. L’Audi non voleva indietreggiare, il Dottor Uka non voleva indietreggiare. Ci sono stati garriti, ragli, persino un paio di ruggiti. Qualcuno giura di aver sentito un barrito. Alla fine l’Audi ha abbassato la testa e ha fatto retromarcia, di nuovo, per gli stessi cinquanta metri. Il Dottor Uka aveva vinto.


Ruderi dell'acquedotto romano a Canale Monterano
L'acquedotto romano di Canale Monterano al tramonto

La storia di Canale Monterano


Ammetto che personalmente ho visitato Monterano sguazzando nella completa ignoranza. Non sapevo assolutamente niente di questo angolo di mondo. Siccome, però, voi siete dei pampini più bravi di me suppongo che qualcosa lo vorrete sapere, no?! Quindi ecco qui un bignami su vita, morte e miracoli di Canale Monterano.

La prima cosa che dovete sapere è che Canale Monterano è praticamente la versione borgo antico di una soap opera. Avete presente la vita dei personaggi delle soap opera? Quel susseguirsi di picchi e cadute della serie “prima vinco la lotteria, poi scopro di avere il cancro alla cervelletta anfibia, ma la cervelletta anfibia non esiste e allora - wiiiii! - sono sana, ma mentre festeggio per essere guarita passa una triciclo guidato da un orso che mi investe e finisco in coma”? Ecco: la storia di Monterano è più o meno così.

L’insediamento a Monterano nasce in epoca etrusca, ma è con i romani che il borgo prende davvero forma arricchendosi per altro dell’acquedotto ancora visibile. Quando cade l’impero romano, però, anche Monterano e la zona circostante cadono. I lanzichenecchi si riversano sulle sue terre come locuste e come locuste la devastano. Passano i secoli e Monterano passa di mano in mano. Nel ‘500 finisce in mano agli Orsini per poi ritrovarsi nel borsello degli Altieri.

Gli Altieri segnano un nuovo picco nella storia della nostra Carmelita Monterano. Tra di loro c’è un certo Emilio Bonaventura Altieri che ha un nome che starebbe bene a Sandokan, ma che in realtà di professione fa il Papa, con il nome d’arte di Clemente X (che poi è un nome un sacco più serio e tranquillo secondo me). Siccome il nostro Emilio ha un debole per Monterano (oppure vuole solo farsi bello in qualche modo) decide di ingaggiare un artista di quelli che vanno più in voga in quel momento per dare una “ripittata” al borgo. Della serie, voi chiamate l’imbianchino per rinfrescare casa e lui chiamò Gian Lorenzo Bernini per costruirgli una chiesa, un convento e una fontana, oltre a rifare la facciata di un palazzo. Stessa cosa proprio!

La fortuna, però, doveva girare. Nel 1770 la Signora in Giallo in persona, con il suo bagaglio di sfiga, deve essere andata in vacanza a Monterano perché la malaria travolge la cittadella decimando la sua popolazione di contadini. Circa trent’anni dopo arriva il colpo di grazia: l’esercito francese incendia e distrugge definitivamente la città. A quel punto la popolazione sventola bandiera bianca, abbandona il borgo e scappa verso il vicino villaggio di Canale: Monterano muore e nasce Canale Monterano.


Chiesa San Bonaventura a Canale Monterano
La Chiesa San Bonaventura nel tramonto a Canale Monterano

La visita a Canale Monterano


Dal parcheggio un sentiero di circa 200 metri raggiunge le prime rovine composte, per lo più, dalle costruzioni di epoca etrusca utilizzate nel corso degli anni come cantine. Da qui in poi la via si snoda in un susseguirsi di vegetazione, ruderi, sassi e scorci da togliere il fiato che si può decidere liberamente come esplorare. Il fatto che Monterano sia visitabile gratuitamente garantisce una grande libertà di esplorazione.

A proposito, piccolo consiglio: Canale Monterano è una zona turistica piuttosto nota. Non sarà Venezia, ma non è neanche così ignoto. In certi periodi dell’anno (tradotto “nelle giornate festive”) questo borghetto dirupato può ritrovarsi a essere assaltato anche da 450 persone contemporaneamente richiedendo l’intervento della Protezione Civile. Il mio consiglio, quindi, è quello di andarci in un periodo di basso turismo, il più basso possibile, e magari al tramonto: non è possibile descrivervi quanto è bella antica Monterano al tramonto!

Qui e là, in modo piuttosto continuo a dire il vero, compaiono cartelli che avvertono del pericolo che comporta muoversi fra i ruderi. Solo per alcuni, però, è interdetto l’ingresso o l’avvicinamento. La maggior parte sono più che visitabili e, anzi, nel primo rudere in cui sono entrata sono riuscita persino ad arrampicarmi sulla parete per vedere il panorama dalla finestra più in alto (ebbene sì, ce l’ho fatta! Prendi questo Monastero di San Domenico in Ciociaria!). 


Panorama naturalistico a Canale Monterano
Il panorama naturale al tramonto a Canale Monterano
Sebbene Canale Monterano sia tutta stupenda e sia abbastanza piccola da essere vista completamente, ci sono alcuni punti che non si possono proprio perdere: il castello, poi diventato in epoca rinascimentale il Palazzo Baronale, è uno di questi. All’interno del palazzo delle scale metalliche di chiara epoca preistorica permettono di salire sul percorso delle mura per godere di un panorama stupefacente su tutti i ruderi circostanti. Al suo esterno, invece, un leone mastodontico decora una delle facciate a ricordo costante che da queste parti, a un certo punto della storia, è passato un certo signor Bernini. In realtà il leone è la riproduzione del felino originale, che al momento se ne sta invece nell’atrio del palazzo comunale di Canale Monterano, ma io non lo sapevo quando ci sono stata e quindi vi posso assicurare che è decisamente credibile: io non avevo proprio capito che era una ricostruzione.

Sempre opera del Bernini è la fontana ottagonale che sorge sulla Piazza San Bonaventura, di fronte alla Chiesa San Bonaventura (che poi dovrebbe stare pure vicino al Convento di San Bonaventura, altro luogo di interesse, ma che al momento non riesco a ricordare dove o come sia). In realtà anche la fontana ottagonale è una riproduzione: quella vera la trovate in Piazza del Campo a Canale Monterano, ma come prima a me sembrava decisamente vera quindi…

La Chiesa San Bonaventura è d’effetto perché al suo interno cresce un albero che nella mia memoria è bianco ma potrebbe anche essere normalissimo. In ogni caso vi assicuro che ricorda l’albero di Minas Tirith, cosa stupenda per un’innamorata di Tolkien come me.

Anche senza avvicinarsi, comunque, la chiesa è veramente bella da vedere. Non per niente l’unico selfie di gruppo che ci siamo fatti ha avuto lei come sfondo. Più che un selfie, a dire il vero, è stato un’impresa: eravamo noi cinque amici e un cane che, in quel tragico momento, era a un po’ troppi metri dal suolo per i suoi gusti e si agitava come un verme sull’amo. Vedere questo botolino di cucciolo tutto shakerato faceva morire dal ridere. Non riuscivamo a stare seri e il Signor Coso non riusciva a inquadrarci e a cliccare il tasto per scattare la foto.

Ora questo povero cagnolino, che per rispetto della sua privacy chiameremo Nove, tendeva soprattutto a shakerare verso destra dove, sventura vuole, si trovava la mia faccia. La prima volta shakera e io mi sposto, la seconda volta shakera e io mi sposto, la terza volta shakera e… mi lecca in piena faccia e io mi sposto: in ritardo, più bagnata e a metà tra lo schifata e il divertita. Ebbene sì: mi ha leccato un cane! Maledizione! A me, che tra un po’ neanche li accarezzo. E mi ha leccato in faccia. A pensarci adesso non riesco a capire perché ridevo tanto. Comunque alla fine il selfie è venuto bene e comunque, secondo me, aveva ragione Nove: provate voi a essere un Bovaro del Bernese che non ama il contatto fisico e a starvene in braccio a un umano. Nove one of us!

Alla fine, dopo aver conquistato tutte le rovine e anche una leccata di cane di troppo, ci è sembrato il caso di rientrare: cominciava a fare buio. Così siamo ritornati alla macchina e siamo ripartiti per la via di andata (la seconda, non la prima), ma un gregge di pecore discretamente numeroso ci si è parato davanti e ci ha tenuto in ostaggio per qualche minuto. Mi piace credere che fossero venute a vendicare l’Audi, ma forse sono solo delle fan mitomani delle mucche dolomitiche e niente più.

Comunque per chiudere questo racconto fatto di indicazioni precise e dettagliate sappiate che a Canale Monterano sembrerebbe che ci siano anche piccole grotte ricoperte di vegetazione e alcune pozze d’acqua ribollenti. Dove sono, chiedete? Non ne ho idea perché io, ovviamente, non ne ho vista mezza.


Albero dentro una chiesa a Canale Monterano
L'albero dentro la Chiesa San Bonaventura a Canale Monterano

Tutte le foto sono del Signor Coso

venerdì 25 gennaio 2019

LA FALESIA JURASSIC PARK

OSSIA LA VOLTA CHE TI ASPETTI I DINOSAURI E INVECE TROVI UNA “VIA FERRATA”


Lo so che da tutte le mie disavventure non sembra, ma il Signor Coso e io siamo persone abbastanza accorte in montagna. Per questo motivo prima di tentare la nostra prima estate di klettersteig abbiamo pensato, ormai qualche anno fa, di seguire un corso CAI sulle vie ferrate. Il bello dei corsi CAI è che non si limitano a essere teorici ma regalano anche un po’ di pratica. Quindi, per tutti quelli di voi che si stanno chiedendo come sarebbe frequentare un corso CAI, ecco la storia della Falesia Jurassic Park, ossia della nostra uscita CAI.


Vista dalla grotta alla Falesia Jurassic Park
Il panorama della Falesia Jurassic Park visto dalla grotta dove finisce la via ferrata


Il corso di vie ferrate del CAI


Per quanto mi piacerebbe vendermi come un talento naturale dell’alpinismo (e per quanto io sia consapevole di confessarmi invece come una mezza sola dell’escursionismo e una campionessa della goffagine a 360°) devo ammettere che la ferrata del Piccolo Cir, ossia la mia prima klettersteig, non è stata un’esperienza poco programmata.

L’inverno che ha preceduto la nostra estate in Val di Badia, infatti, il Signor Coso e io ci siamo fatti due conti sul nostro entusiasmo per la montagna e la nostra aspirazione per le klettersteig e abbiamo pensato che fosse una buona idea rivolgerci a qualcuno di esperto. Così ci siamo iscritti al corso sulle vie ferrate della scuola CAI Franco Alletto. Ora la Franco Alletto è a Roma (ma ha anche un interessante, per quanto non aggiornato, canale YouTube per chiunque volesse darci una sbirciatina), ma le sezioni CAI si possono trovare un po’ in tutta Italia.



Purtroppo il Signor Coso ha fatto un insensato affidamento sulle mie capacità mnemoniche per cui non mi ha raccontato molto del corso in sé. Quello che posso dirvi in generale sul corso è decisamente poco e si potrebbe riassumere in:
  • una lezione teorica sui rischi della montagna in cui, tra l’altro, abbiamo imparato nozioni dal valore decisamente alto come “ferrata = metallo ovunque; temporale = fulmini; metallo = parafulmini; ferrata + temporale = brutta cosa”. Il che, riassunto in linguaggio umano, significa che se piove non si va in ferrata (anche perché la roccia della parete diventa fastidiosamente liscia) e che se ci si trova in parete e scoppia un temporale è importante allontanarsi il più possibile quanto prima e liberarsi di tutta l’attrezzatura di ferro;
  • una lezione teorica sull’attrezzatura e le tecniche specifiche 
  • una lezione in palestra sui nodi e l’allestimento delle soste
  • una lezione pratica presso la Falesia Jurassic Park in un sabato di primavera. 

L'arrivo alla grotta alla Falesia Jurassic Park
L'ingresso alla grotta che conclude la via ferrata della Falesia Jurassic Park

Le prove di via ferrata e la discesa in corda doppia nella Falesia Jurassic Park


La Falesia Jurassic Park, nonostante quello che potrebbe far pensare il nome, non c’entra nulla né con i T-Rex né con il professor Ian Malcom, mia cotta infantile. E per questo sono ancora un po’ in lutto, lo ammetto. In compenso, però, ha molto a che fare con diverse pareti di arrampicata oltre che con una piccola zona attrezzata ad hoc per allenarsi a percorrere le vie ferrate.

La falesia si trova vicino a Tagliacozzo, sulla strada che porta fuori dal piccolo paese di Petrella Liri. Dopo un paio di curve si raggiunge uno spiazzo abbastanza ampio da parcheggiarci più di una macchina. Da lì si è già arrivati nell’area attrezzata.

La zona ha tre attrazioni principali: una serie di due scalette (che però potrebbero anche essere montate volta per volta per il corso CAI), un punto allestito per la discesa in corda doppia e la via ferrata vera e propria.

Quel giorno noi eravamo una mezza bolgia: più di 20 persone con 5 istruttori CAI. Tra le oltre 20 persone c’era persino chi soffriva di vertigini (tanto di cappello allo sconosciuto di cui non ho mai memorizzato il nome che con le vertigini a 1000 ha provato a fare un corso di ferrate) e poi c’ero io che non sapevo neanche legarmi il dissipatore all’imbrago. Non che non sappia fare un nodo a bocca di lupo - eh! - ma il mio dissipatore è del tipo “mi piego ma non mi spezzo” quindi… di solito interviene il Signor Coso che lo “spiezza in due”. Insomma forse non eravamo il gruppo più brillante della storia dell’alpinismo...

Per poter far tutto, senza incalzarci più dello stretto necessario, siamo stati divisi in due gruppi. Il Signor Coso e io siamo finiti in quello che cominciava dalle scalette. Lo scopo essenziale di queste due scalette era quello di farci familiarizzare con la parete e l’avanzamento verticale. La regola base da imparare, in generale, era quella di tenere le longe del dissipatore nell’incavo del gomito per non lasciarselo troppo indietro. Sapete com’è: effetto della forza di gravità! Regola base da imparare per me: smettere di tremare. Spoiler alert. Non ho imparato.

La prima scaletta è piuttosto ampia e comoda, mentre la seconda si stringe un po’ e si fa più ardua, anche se forse la maggiore difficoltà è dovuta soprattutto al mancato allineamento delle due scalette. Io le ho fatte tremare entrambe neanche fossi il terremoto stesso. Il mio tremore però non aveva senso: ovviamente la salita era totalmente in sicurezza. Un istruttore ci faceva sicura da terra. Era un tipo strano, però affidabile: portava degli occhiali a prisma che gli permettevano di guardare in alto senza dove inarcare il collo. Decisamente comodo, ma inconsueto da vedere. Era talmente inconsueto che è rimasto nella fantasia collettiva per molto tempo al punto che, qualche mese dopo, senza nessun buon motivo ha cominciato a circolare sul gruppo Whatsapp del corso la convinzione che fosse morto, manco fosse Tonio Cartonio. Non lo era, ovviamente. Ma almeno adesso l’anonimo istruttore CAI può entrare a pieno titolo nella rosa dei morti ancora in vita insieme a Paul McCartney, Macaulay Culkin e Fabri Fibra. Fico no?!

Alla fine della scala dovevamo lasciarci andare. L’intero corso CAI è praticamente un continuo dover dare fiducia a sconosciuti. Il Tonio Cartonio del CAI ci doveva calare lentamente a terra. E qui se ne sono viste di tutti i colori. Qualcuno si è ancorato alle scale neanche fosse un riccio sullo scoglio. Vi giuro che era difficile convincere alcuni a staccarsi da lì.

Subito sopra la scala si sviluppano 5/6 metri di ferrata orizzontale dove è necessario avanzare con sedere in pizzo e piedi puntati sulla roccia. È un tratto breve, ma abbastanza sfidante, perfetto per imparare a cavarsela anche nei punti un po’ più ostici. Una volta calati nuovamente a terra era il momento di passare alla corda doppia.

Prima di farci affrontare una vera discesa in corda doppia ci hanno spiegato in sicurezza e con i piedi ben piantati a terra tutti i nodi e le sicure da usare e come fare a fermarsi e ripartire. Siccome vi ho già ammorbato sufficientemente su tutte queste tecniche quando vi ho raccontato del Monte Viglio direi di saltare la teoria e andare subito alla pratica.

Il punto allestito per la corda doppia si trova in cima a una rupe. Lì ci aspettava un altro istruttore pronto a controllare che fosse tutto a posto prima di dare il via alla nostra discesa per 20 metri. Nel complesso era una discesa piuttosto autonoma: unica sicurezza l’istruttore a terra sempre pronto a tirare la corda doppia per fermarci.

Discesa assistita alla Falesia Jurassic Park
La mia discesa assistita per 30 metri alla Falesia Jurassic Park


La via ferrata della Falesia Jurassic Park


A questo punto era già passata qualche ora ed era il momento di riunire i gruppi e affrontare la via ferrata vera e propria. Che poi fa ridere chiamarla così: “via ferrata vera e propria”. Che uno a sentirla chiamare così chissà che si immagina, magari l’Elferkofel e invece è praticamente un sentiero attrezzato. Che poi non è neanche un sentiero attrezzato, a dire il vero. La via per il Rifugio Re Alberto è un sentiero attrezzato, questo è più un semplice sentiero per il 90% del percorso. Il 10% che si potrebbe chiamare “attrezzato”, invece, è all’inizio e alla fine del sentiero.

I primi due/tre metri del sentiero sono particolarmente verticali e scivolosi. Un po’ per l’inesperienza, un po’ per il terriccio qui si potrebbe avere qualche difficoltà. L’istinto spinge quasi subito ad ancorarsi al cavo metallico. Il problema è che l’istinto di tutti agisce nello stesso identico modo e in più il cavo è un po’ lasso… così è quasi inevitabile che tira tu tira io… la mia mano resta intrappolata tra il cavo e la roccia. Così ho imparato quanto può far male affidarsi troppo al cavo della ferrata. Tra cavo e roccia, sempre scegliere la roccia!

Il secondo tragico tratto è quasi all’imbocco della grotta dove si conclude la ferrata. Qui un gradone di circa un metro e mezzo, due metri è riuscito a farmi incagliare come poche volte nella vita. Non c’era modo di superarlo. Non c’era appiglio, non c’era presa. Il cavo non aiutava. E io ero ferma a un passo dalla fine, destinata a essere per sempre un tappo nella lunghissima fila indiana di noi formichine ferratiste.

Ho provato a superare quel tratto più e più volte. Ricordo lo scarpone che non faceva presa e le mie braccine rachitiche che non erano in grado di trascinarmi su a forza. Ho supplicato il Signor Coso di salvarmi. Il mio orgoglio c’è rimasto particolarmente male per questo mio obbligatorio momento di debolezza. Cioè, ci fosse almeno stato il professor Ian Malcom da supplicare… e invece mi è toccato il Signor Coso. Me lo sono dovuto far bastare…

A dire il vero non ricordo precisamente come ho superato quel gradone. Forse mi ha sollevato di peso il Signor Coso, forse un miracolo mi ha permesso di trovare un appiglietto su cui far leva, forse un T-rex mi ha tirato su con le sue lunghe e possenti braccia. In effetti potrebbe essere… tra le tre quella del T-rex mi sembra l’opzione più plausibile.

Fatto sta che alla fine sono arrivata anche io all’interno della grotta dove l’ultimo istruttore aveva già attrezzato la sosta per permetterci di fare la discesa assistita di 30 metri che ci avrebbe riportato fuori dalla ferrata.

Una discesa assistita significa non fare nulla se non sporgersi abbastanza da permettere all’altro di calarti in sicurezza e tenere lontane le mani dal cavo. Davvero, si deve fare solo questo: sporgersi, non toccare il cavo e camminare. E sapete quali sono state le tre cose che ha sbraitato più spesso l’istruttore?

  1. “Sporgiti! E sporgiti! Su forza sporgiti! Più fuori! Più fuori! Devi scendere in parete quindi vai sulla parete! SPORGITI!”
  2. “Togli le mani dal cavo! Non tenerti al cavo! Togli le mani dal cavo ci penso io! Non è una discesa in corda doppia: togli le mani dal cavo! Togli quelle mani o te le taglio! TOGLI. LE. MANI. DAL. CAVO!”
  3. “Non saltare! Non saltare! Devi camminare! Cammina! Non fare come 007 che non ha senso! Non saltare! Non si salta, si cammina! Non saltare! Ti ho detto di NON SALTARE!”
A ripetizione. Poveraccio!

Comunque una volta a terra era finito tutto. Tu eri vivo, l’insegnante senza voce e la tua adrenalina era talmente tanta che per i tre giorni successivi sembrava ti fossi fatta di cocaina. Ah! L’effetto della montagna!

Quindi, tirando le fila:

  • il corso del CAI? Buono, molto buono!
  • come iniziare con le ferrate? Facendo un corso CAI o se si hanno amici esperti facendosi fare un corso perfetto, serio e completo da loro
  • Jurassic Park? Una falesia davvero divertente!
  • La via ferrata? Semplice ma carina.
  • La corda doppia? Bella!
  • La discesa assistita? Più comica che terrorizzante.
  • Il professor Ian Malcom? Non pervenuto.
  • Il T-rex? Il mio nuovo eroe!
Sulla via ferrata della Falesia Jurassic Park
La via verdeggiante della ferrata della Falesia Jurassic Park


Le foto sono tutte del Signor Coso

venerdì 18 gennaio 2019

5 COSE DA NON FARE DURANTE UN'ESCURSIONE

UN PICCOLO VADEMECUM PER MUOVERE I PRIMI PASSI


Anno nuovo, vita nuova! Per cui se fino ad ora siete stati tipi da mare che ne dite di provare qualcosa di diverso e darvi all’escursionismo? Non dico subito, d’altro canto anche io prediligo la stagione calda per andare in montagna, ma per prepararsi non è mai troppo presto, no?! E allora, se avete deciso di mettere da parte per un po’ l’ombrellone eccovi 5 cose da non fare assolutamente durante un’escursione. 5 informazioni essenziali per cominciare, ma anche per continuare al meglio!


Sentiero sull'Hoher Burgstall
Sentiero di ritorno sull'Hoher Burgstall

1. NON SOTTOVALUTARE IL SENTIERO


Quando si fa un’escursione la prima cosa importante è sapere quanto è difficile il sentiero che si sta per affrontare. Tranquilli! Non mi aspetto che siate onniscienti. Fortunatamente libri e siti straripano di ottime informazioni sulla maggioranza dei sentieri, ma è importante saperle leggere.

Cosa cercare quando si tenta di farsi un’idea di un’escursione? Prima di tutto il dislivello, quindi la sua lunghezza: la combo dislivello+lunghezza vi darà il valore vero della fatica richiesta.

Importante è anche il terreno su cui si cammina: la ghiaia secondo me è il peggior nemico dell’escursionista. Di certo è il mio peggior nemico! La Val Setus, per riscendere dalla Ferrata Tridentina, ad esempio, è stata forse l’esperienza peggiore della mia breve, goffa e caotica esperienza escursionistica (seconda solo al Vajolet, ma lì la ghiaia non c’entrava niente…).

Anche l’esposizione al vuoto e la presenza di tratti “ferrati” implicano, inevitabilmente, un sentiero più impegnativo. Se siete all’inizio, quindi, è meglio evitarli.

Fortunatamente nel tempo è stata codificata una scala di difficoltà per evitare agli escursionisti di affrontare un’escursione troppo al di sopra delle loro capacità. Qualche semplice lettera può fare la differenza tra una divertente avventura e un inquietante incubo.

I sentieri possono essere:

  • T - Turistici. Escursioni tranquille, solitamente al di sotto dei 2000 m, su mulattiere, stradine o sentieri larghi. Tendenzialmente sono ben segnalati, non comportano problemi di orientamento e sono alla portata anche di escursionisti totalmente inesperti.
  • E - Escursionistici. Escursioni solo leggermente più sfidanti delle precedenti, su terreni misti e costellate dei giusti cartelli. Qui è là potrebbero esserci dei piccoli tratti esposti non difficili grazie alla presenza costante di cavi.
  • EE - per Escursionisti Esperti. Qui il terreno può essere impervio e scivoloso, a volte roccioso ma non prevede mai l’avanzare su un ghiacciaio. Il sentiero è tendenzialmente segnalato, ma le caratteristiche variabili del terreno, la lunghezza elevata dell’escursione e il dislivello non piccolo che caratterizzano questi percorsi rendono necessari una preparazione fisica e di conoscenze non da principianti e la presenza di tutto il materiale tecnico adeguato.
  • EEA - per Escursionisti Esperti con Attrezzatura. Sono praticamente le EE ma con l’aggiunta dei tratti attrezzati. In sostanza sono le ferrate. Quindi divieto assoluto di affrontare queste escursioni se non si possiede la giusta attrezzatura di autoassicurazione (moschettoni, dissipatore, imbragatura, cordini)!
Dopo questi livelli ci sono solo i gradi di scalata, ma adesso non esageriamo, no?!


2. NON PRENDERE SCORCIATOIE


Una cosa che non va mai fatta in montagna è quella di barare. Capita a tutti, soprattutto le prime volte, di credersi più furbi del sentiero. Guardate tutta la strada davanti a voi e pensate “ma sai che c’è? Io prendo a destra, qui, per campi così accorcio”. Ecco, questo è il modo giusto per fare un’escursione di 10 ore invece di quella da 4 che vi prometteva il sentiero. Perché inevitabilmente, con una certezza del 100%, vi perderete e dovrete tornare indietro dopo aver vagabondato senza meta, senza senso e senza speranza e aver sperperato tutte le vostre energie. Fidatevi! So di cosa parlo: d’altro canto è esattamente quello che è successo a me al Monte di Cambio, purtroppo…

Altra cosa da non fare è andare fuoripista. è pericoloso, per voi e per gli altri. No, non è da furbi: è solo da scemi!


3. NON ANDARE DI FRETTA


Roma non è stata costruita in un giorno e neanche le vostre capacità escursionistiche saranno al top già dalla prima escursione. Insomma io sono entrata nel mio quinto anno di escursioni e sono ancora soltanto una goffa zoppetta. Magari voi siete più talentuosi di me, ma comunque vi servirà tempo per diventare i nuovi Bonatti.

Per cui tenete a mente le tre parole chiave del muovere i primi passi in montagna:

  • Gradualità. Cominciate con un trekking facile. Anche i più allenati di voi non sono abituati a pendenze e altitudini come quelle che le montagne possono regalare, quindi è facile che durante la prima escursione sarete un po’ privi di energie. Non esagerate e ricordatevi sempre: il gioco è tornare giù con ancora un po’ di forze, altrimenti non avete giocato bene.
  • Costanza. Non cominciate a fare escursioni lunghissime e poi a passare mesi con il sedere ben ancorato sul divano. Lo so, lo so: la vita quotidiana è faticosa! C’è il lavoro, la scuola o quel che vi pare e poi siamo tutti un po’ pigri… però no! Dovete continuare a muovervi, abituare il vostro fisico a uno stato diverso da quello di pachiderma spiaggiato. Se abitate in città potete sempre farvi lunghe passeggiate o andare in palestra, meglio ancora se tutte e due. E poi ci sono allenamenti ad hoc per non perdere il passo. Quindi non avete scuse: vi siete dati all’escursionismo? E adesso dovete continuare a camminare!
  • Intensità del passo. La cosa più difficile da imparare le prime volte è il passo da tenere. Avrete la tentazione di dover correre, ma il trekking non è una gara (e anche se lo fosse sarebbe una maratona, non i 100 metri). Non potete consumare tutte le energie all’inizio, ma non ha neanche senso andare troppo piano: finireste per non arrivare mai. Dovete trovare il passo giusto, la giusta velocità per non decelerare mai e riuscire a fare tutto nei tempi che vi siete prefissati. Lo so che non è facile, ma vi tocca. Nella mia magnanimità vi consiglio la tecnica che uso io per tenere il passo: mi canticchio in testa vecchie canzoni popolari. Provate voi a canticchiare “il Piave mormorava caldo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio…” e a non continuare a marciare nonostante la stanchezza!


4. NON FARTI SORPRENDERE DAL BUIO


Quando siete in montagna dovete considerarvi come Cenerentola. Solo che siete peggio di Cenerentola: lei almeno poteva aspettare la mezzanotte, voi dovete rientrare prima del tramonto. Ebbene sì! Penserete che non c’è niente di più bello che un tramonto visto in vetta ma vi sbagliate. Al tramonto in montagna succedono due cose:

  • inizia a fare freddo
  • non ci si vede più nulla (ricordate? Montagna, niente lampioni…)
Per cui è essenziale tornare indietro quando il sole è ancora piuttosto alto. Calcolate bene i tempi sia prima che durante l’escursione e in caso vi doveste trovare ancora sul sentiero quando il sole scende (non deve succedere, ma se succede) assicuratevi di aver fatto lo zaino per bene e di averci messo dentro anche una torcia.

5. FAI LE PAUSE DURANTE L’ESCURSIONE, NON L’ESCURSIONE DURANTE LE PAUSE


C’è un motivo se il Signor Coso non ha amato particolarmente le prime escursioni con me. E no, non è perché non stavo mai zitta, altra cosa da non fare in montagna: il fiato è tipo oro, va conservato gelosamente!

No, è perché facevo pause continue. A mia difesa erano tutte motivate: sentivo caldo, e poi freddo, e poi caldo, e poi freddo, e poi caldo, e poi freddo, e poi… insomma, avete capito! Tipo ogni tre passi dovevo mettermi la felpa, o togliermi la felpa, e poi mettermi il giacchetto, e poi accorciarmi i pantaloni… e così via.

In sostanza noi non facevamo un’escursione, facevamo delle pause! L’escursione era solo quello che capitava in mezzo, in modo anche piuttosto disparato, tra le mille pause e le altre mille pause. Era un lento stillicidio, a pensarci adesso.

Ecco, tutta questa cosa delle pause è terribilmente sbagliata quando si è in montagna. Ve lo ho detto prima: bisogna tenere il giusto passo e bisogna tornare a casa con il sole. Tradotto: bisogna evitare le pause. Non dico di non farle mai, io non ce la farei a vivere senza fare mai pause, ma dovreste fare solo quelle strettamente necessarie.

Se il vostro corpo riesce ancora ad andare avanti senza troppa difficoltà è probabile che quella pausa che volete tanto fare sia solo pigrizia. Evitatela!


Ecco le 5 cose da non fare. E nei miei pochi anni di escursioni le ho fatte quasi tutte. Oh! Come sono brava! Ma voi datemi soddisfazione: almeno voi imparate dai miei errori e non fatele mai.