venerdì 30 marzo 2018

L’ESCURSIONE AL RIFUGIO VAJOLET DEL CATINACCIO

LA VOLTA IN CUI "MA CHE DAVVERO DEVO FARE STA SALITA SOTTO IL SOLE E CON LA FOLLA?"

Io odio il Vajolet!
Mi sembrava giusto mettere le cose in chiaro fin da subito. Questa facile, ma crudele escursione nel Gruppo del Catinaccio mi ha praticamente divorato l’anima il primo anno che sono stata sulle Dolomiti, quindi tre anni fa, mese più mese meno. Come è stato vivere senz’anima da allora? Beh… più o meno come prima. Fatto sta che è un po’ traumatico ripensarci, ma – ehi! – terapia d’urto no?! E allora torniamo indietro ed ecco l’escursione al rifugio Vajolet del Catinaccio.


La via dal Rifugio Gardeccia al Rifugio Vajolet

L’avvicinamento al Vajolet


Se, come noi, si ha voglia di fare trekking in Val di Fassa è facile imbattersi nel Vajolet e nelle sue due mastodontiche meraviglie calcaree: le Torri del Vajolet. Se poi si è a Campitello con il Signor Coso è praticamente impossibile evitare di finirci. Lui infatti giurava che fosse bellissimo e che fosse l’escursione perfetta da fare nel nostro secondo giorno di vacanza, subito dopo l’escursione sul Sassopiatto.

Ah! Il Sassopiatto! Lui e il suo malefico discesone spacca-ginocchia e la sua accidentale via crucis che con la sua pendenza e i suoi mille gradini finisce il lavoro del discesone. E nel caso non sappiate di cosa parlo o non vi ricordiate come abbia fatto il Sassopiatto a farmi diventare la signora Zoppetta andateci a dare un’occhiata. Comunque per il momento prendete per buono che quando sono andata sul Vajolet ero Zoppetta e non ero neanche l’unica. Anche la Malefica era messa male (che poi poveretta, lei era giustificata: l’aveva investita due giorni prima un’ambulanza…).

Comunque il Signor Coso era sicuro che il Vajolet ci avrebbe trattato bene così ci siamo tutti fidati e siamo andati. Zaini in spalla e via con l’autobus verso Pera, frazione di Pozza di Fassa, dove con due tratti di seggiovia si arriva a Pian Pecei (1800m) da dove comincia l’avvicinamento. Ora, per essere onesti, è possibile raggiungere Pera da Campitello anche con una tranquilla passeggiata di circa mezzora sul lungofiume dell’Avisio. Però l’ho già detto: Zoppetta. Accontentatevi che non ho deciso di prendere direttamente l’autobus che da Campitello porta al Rifugio Gardeccia saltando in un sol colpo impianti e Pian Pecei.

Abbiamo fatto bene, però, a decidere per la seggiovia. Il tratto di strada che porta da Pian Pecei al Rifugio Gardeccia (1948m), infatti, è in mezzo al bosco e di tutta questa escursione è stata la parte più piacevole, ve lo assicuro! Però era solo l’avvicinamento. La salita vera comincia da qui e prima di intraprenderla io dovevo fare un rapido pit-stop: neanche eravamo partiti e già mi dovevo cambiare la maglietta perché stavo morendo di caldo. Ohibò! Probabilmente questo è un record personale.


Vista in un giorno sereno del Gruppo del Catinaccio dal Rifugio Gardeccia

La salita al Vajolet


Lasciato il Rifugio Gardeccia inizia quello che a tutti gli effetti potremmo chiamare “via infernale di lava e fuoco che ti rosolerà, prosciugherà di tutte le forze e anche se fingessi di essere un opossum morto ti farebbe a pezzi lo stesso perché mica è un Grizzly, ma una via infernale”, ma che per amore di sintesi chiameremo sentiero n. 546. Che poi in sostanza è una mulattiera che, eccettuati un paio di tornanti iniziali, prosegue dritta fino alla cima in un paesaggio in cui gli alberi non sembrano più andare di moda, ma invece sono un sacco in i sassi arroventati e bianchi che tra un po’ manco le case pugliesi (che per inciso quando sono stata in Puglia non riuscivo a tenere gli occhi aperti per la luce che riflettevano quei malefici muri, quindi vedete voi che effetto può fare questa crudele mulattiera).

A quanto giura e spergiura il Signor Coso a destra del sentiero dovrebbe scorrere un fiume che, l’anno prima, durante una grandinata che probabilmente sarebbe stata un inquietante dejà vu per i dinosauri di ogni epoca, aveva deciso di gonfiare il petto tipo una primadonna e aveva costretto il Signor Coso e sua madre a diventare “guadatori” esperti di fiume. Delle serie “sul Vajolet o vai a fuoco o affoghi”. Io avevo pescato la carta “vai a fuoco” e infatti non ricordo nessun fiume. Secondo me quell’anno al suo posto c’era una crepa che arrivava dritta al nucleo terrestre e al suo magma incandescente. 


Il Rifugio Vajolet e il Rifugio Preuss con le Torri del Vajolet sullo sfondo

Il caldo, comunque, sarebbe stato anche gestibile se non fosse stato per la folla. La mulattiera è piuttosto larga, quasi un’autostrada messa a confronto con il sentiero medio di montagna, ma quel giorno tutta la Val di Fassa si era data appuntamento sul Vajolet. Letteralmente eh, non scherzo. Sì perché quel giorno, a nostra insaputa, Uto Ughi avrebbe suonato il violino proprio lì sul Vajolet. E se siete ignoranti come me e non sapete chi sia Uto Ughi lo potete scoprire, ma soprattutto ascoltare, in questo video.


Alla fine dopo circa un’ora, nonostante il caldo e la folla, contro ogni previsione siamo riusciti ad arrivare alla fine del sadico sentiero e a raggiungere la balconata posta immediatamente sotto le Torri del Vajolet. Da lì è possibile guardare l’intera vallata percorsa fino a un attimo prima e si può scegliere in quale rifugio mettere il naso: il Rifugio Vajolet o il Rifugio Preuss (2243m). La vista è stupenda, ma ciò che fu veramente meraviglioso fu trovare un krapfen! Un krapfen signori! Non ricordo in quale rifugio lo comprai, però ero felicissima e soprattutto fu il primo krapfen che mangiai in vita mia. Un momento storico!

Alla fine comunque non ce lo siamo mica ascoltati Uto Ughi, anche se eravamo arrivati proprio dovrebbe avrebbe tenuto il concerto. Siamo dei polli dite voi? Può darsi, ma avevamo quasi dei buoni motivi. La Malefica era stata sconfitta dal sadico sentiero, gli altri nostri amici avevano deciso di ricominciare la discesa e il Signor Coso e io… noi siamo andati verso il Rifugio Re Alberto. Perché okay che ero la signora Zoppetta, ma come si resiste a un sentiero attrezzato? Che poi quello è bellissimo!

La croce sulla balconata del Vajolet che segna la fine del sentiero da Gardeccia

Scheda dell’escursione:


Partenza: Pera (in seggiovia)
Arrivo: Vajolet (a piedi)
Difficoltà: E
Dislivello: 243m
Durata: 2 ore circa
Sentieri: 546
Rifugi: Gardeccia, Vajolet, Preuss


Le fotografie sono mie, del Signor Coso e di Wiiiiiwoman

venerdì 23 marzo 2018

IL GIRO DELL’UETLIBERG, SOPRA AI TETTI DI ZURIGO

LA VOLTA CHE ABBIAMO SCOPERTO L’ESISTENZA DI CERES (E NON PARLO DELLA BIRRA)

Sopra Zurigo c’è un monticello. Un piccolo totem che di inverno supera la nebbia nonostante non arrivi neanche a 1000m di altezza. Si chiama Uetliberg ed è la meta preferita in quella zona di famiglie e amati delle facili escursioni. Ecco oggi parliamo di lui.

Vista su Zurigo dall'Uto Kulm, vetta dell'Uetliberg

La partenza da Zurigo


Siccome questa storia ci farà fare un po’ una figuraccia voglio mettere le mani avanti. L’estate in cui il Signor Coso e io abbiamo trascorso qualche giorno a Zurigo grazie alla gentile ospitalità di mia cugina (grazie! grazie! grazie!) era anche l’estate in cui nella Val di Pejo avevamo conquistato il Vioz, visto i laghi del Cevedale e fatto altre cosette come il giro del Lago Pian Palù e il meraviglioso e terribile Sentiero dei Tedeschi dove c’eravamo quasi persi. Era quindi un’estate in cui praticamente ormai strascicavo i piedi per terra. Oltre a tutto questo, per altro, prima di raggiungere l’Uetliberg avevamo visitato per tutta la mattina in lungo e in largo Zurigo quasi esclusivamente a piedi. Eravamo un po’ giustificati nell’essere stanchi (soprattutto perché io non mi chiamo Messner neanche lontanamente e ormai si sarà capito).

E sempre prima di giudicarci male ricordatevi che qualche giorno dopo abbiamo fatto del vero trekking in Svizzera sul Sattel-Hochstuckli che in quanto impronunciabilità del nome fa a gara con l’Uetliberg, ma a differenza di quest’ultimo si può abbastanza chiamare monte. Quindi, insomma, siate clementi.

Fatto sta che comunque quel pomeriggio, resistendo alla tentazione di addormentarci per sempre che ci stava regalando la digestione delle penne al pomodoro cucinate da me (quindi è un miracolo che ci stessero solo facendo addormentare e non ci stessero uccidendo), abbiamo preso armi e bagagli e ci siamo rimessi in cammino verso il colle che sovrasta Zurigo: l’Uetliberg, appunto.

Sapevamo di dover raggiungere la Zurich HB, la stazione centrale, ma da lì non sapevamo come procedere perché avevamo già dei biglietti giornalieri che coprivano la zona centrale di Zurigo ma l’Uetliberg è tutto tranne che centrale. Quindi arrivati in biglietteria abbiamo chiesto cosa fare. Piccolo problema: qualcuno sa come diamine si pronuncia “Uetliberg”? No, perché noi non lo sapevamo. È praticamente impronunciabile. Forse sarebbe più facile dire il nome di Dio. E quindi per poter chiedere cosa fare abbiamo dovuto indicare il monte su una cartina. Siamo più furbi di un furetto svenuto il Signor Coso e io! Così abbiamo scoperto di dover comprare un biglietto supplementare per altre due zone (di cui una era sulla nostra strada praticamente per sbaglio visto che quasi la sfioravamo e basta, ma va beh).

Con i biglietti in mano poi è stato un gioco da ragazzi: il treno che parte da Zurich HB e porta all’Uetliberg si chiama proprio linea Uetliberg e la stazione a cui scendere è la stazione Uetliberg. Insomma è a prova di scemo. Se non fosse che per tutti i venti minuti di viaggio sono stata in ansia perché non capivo se ero o meno in seconda classe (panico da multa direi) avrei potuto quasi dire che sia stato un piacevole viaggio.


Grande lampione a forma di giraffa con quattro lampadine sulla via per la vetta dell'Uetliberg

La salita all’Uetliberg


Arrivati alla base dell’Uetliberg, senza aver preso neanche mezza multa (fatemi i complimenti: era davvero la seconda classe. Poco importa che quel treno abbia solo la seconda classe…) abbiamo individuato facilmente la via di salita per la cima. In realtà per raggiungere la vetta di questa collina della catena Albis si possono scegliere vari sentieri escursionistici. Noi abbiamo scelto il principale e dopo pochi passi abbiamo incrociato quello che forse è il più famoso dei sentieri dell’Uetliberg: il sentiero dei pianeti. Ma, come direbbe Lucarelli, per il momento mettiamolo da parte.

Ignorando il sentiero dei pianeti ma restando invece abbastanza stupiti dai giganteschi lampioni a forma di giraffa, al primo bivio abbiamo intrapreso la strada per la cima e in pochi minuti eravamo sull’Uto Kulm, la vetta dell’Uetliberg (871m). Qui si trova una sorta di giardinetto che già offre numerosissimi punti panoramici su Zurigo e il suo lago. Oltre a questi però ci sono anche un ristorante che ha l’aria di essere molto costoso e un paio di torri: la Uetliberg TV-tower, non accessibile e alta 186m e una seconda torre panoramica, alta 72m e questa volta accessibile pagando 2 franchi al tornello.

Il Signor Coso e io abbiamo una passione per i punti panoramici alti quindi abbiamo pagato immediatamente i 2 franchi richiesti. Al tornello però c’erano un paio di ragazze orientali che, non si sa bene per quale motivo, dopo aver tentato di pagare il tornello con la loro moneta nazionale (ma il signor tornello doveva essere un po’ razzista perché accettava solo franchi e forse euro, se ricordo bene) hanno provato a convincere il Signor Coso a farle entrare con lui. Perché hanno tentato con il Signor Coso e non con me? Perché lui ha la faccia di una persona carina e gentile e io quella di una strega malefica. E infatti la mia reazione è stato un immediato “together un par di c***i!”. Il Signor Coso è stato più educato, ma metto agli atti che pure la sua risposta aveva lo stesso senso. Per dire che pure lui è una strega malefica, in fondo in fondo.

Alla fine dei 72 metri della torre si gode di una vista stupenda su tutta Zurigo, sul meraviglioso lago di Zurigo, ma anche oltre: sulle Alpi che si stagliano all’orizzonte. E per aiutare i turisti a farsi un’idea di cosa stanno guardando ci sono anche comode piantine descrittive dei monti di fronte a loro.


Panorama del lago di Zurigo visto dalla torre panoramica dell'Uto Kulm, vetta dell'Uetliberg

Il ritorno a Zurigo


Tornando giù dalla cima abbiamo preso un sentiero differente che passava comunque sempre dentro il parco. Dopo un po’ che lo percorrevamo abbiamo, però, intravisto la possibilità di ricongiungerci al sentiero dei pianeti e abbiamo colto l’occasione.

Ed eccoci giunti al momento di parlare del sentiero dei pianeti, un sentiero che riproduce in scala la dimensione dei pianeti del sistema solare ma anche della loro distanza reciproca. Salendo verso la cima se ne fa un primo tratto e quindi noi avevamo già visto il Sole, Mercurio, Venere e la Terra, ma poi avevamo deviato per la vetta. A questo punto però avevamo una mezza idea di vederci gli ultimi pianeti. Abbiamo quindi ripreso questo sentiero di cresta camminando per forse venti minuti, una mezzora. Per percorrere tutto il sentiero, in realtà, sarebbero necessarie due ore e si arriverebbe a Felsenegg di Adliswell, una zona dove potrebbe esserci una funivia che porta alla cima dell’Uetliberg oppure una stazione del treno o tutte e due. Non parlo tedesco quindi ci capisco poco della geografia di quei posti. A un certo punto, comunque, il Signor Coso e io abbiamo gettato la spugna quindi non ho mai scoperto dove saremmo finiti seguendo tutto il sentiero. D'altro canto sapete quanto può essere faticoso percorrere tutto il sistema solare? La NASA non ce l'ha ancora fatta e dovevamo farcela noi?

Noi siamo riusciti giusto ad arrivare a fare la scoperta del secolo, per lo meno del mio secolo: abbiamo scoperto che esiste Ceres, non la birra il pianeta! Che poi in italiano sarebbe Cerere e a quanto pare è un asteroide del sistema solare, l’unico in assoluto a essere considerato un pianeta nano alla stregua del povero Plutone che fino a qualche anno fa era un signor pianeta, e che è stato scoperto, Ceres non Plutone, nel 1801 dall’astronomo Giuseppe Piazzi. Insomma la mia scoperta del secolo arriva in ritardo di un paio di secoletti, ma vi assicuro che ero sconvolta quando me lo sono ritrovata davanti.

A quel punto, comunque, troppo stanchi per proseguire abbiamo dovuto fare dietrofront e tornarcene con la coda fra le gambe a Zurigo con quel bel treno fatto a prova di scemo. E quindi niente: l’estate in cui non mi ha sconfitto il Vioz mi ha fatto a pezzi l’Uetliberg. Che vergogna!


Riproduzione in scala di Venere nel sentiero dei pianeti dell'Uetliberg

Scheda dell’escursione:


Partenza: Zurigo (in treno)
Arrivo: Zurigo (in treno)
Difficoltà: E
Durata: 1 ore circa
Dislivello: 250m

Tutte le fotografie sono mie

venerdì 16 marzo 2018

LA SALITA AL GRANDE CIR

LA VOLTA CHE “UNA FERRATA NON BASTA, FACCIAMO ANCHE IL MASSICCIO ACCANTO!”

La settimana scorsa eravamo rimasti con la conquista della ferrata del Piccolo Cir, una scivolata frenata per fortuna da un arbusto e un paio di tedeschi che morivano dal ridere per il mio incidente stile “Le comiche”. Con queste promesse potevamo fermarci e andarcene a casa? No! Siamo andati ovviamente sul Grande Cir!

Vista del panorama verso il Gruppo del Sella dalla vetta del Grande Cir

L’avvicinamento al Grande Cir


Il Grande Cir, come vi suggerisce forse il nome, va in coppia con il Piccolo Cir. Sono tipo una parure, solo un po’ più ingombrante. Per la precisione il Grande Cir è il massiccio più consistente del gruppo. Da qui il nome. Quale gruppo? Il Gruppo del Cir, ovviamente! Che nome vi aspettavate scusate? Il Gruppo di Piero? Quella era la guerra, ma è un’altra cosa.

Comunque se non si arriva da Passo Gardena, ma come il Signor Coso e me si è appena conquistata la vetta del piccolo della famiglia e si sta riscendendo nel canalone che divide i due massicci arrivati alla base del canalone è sufficiente svoltare a sinistra su un sentiero ben tracciato per raggiungere in poco tempo l’attacco della salita.

Questa strada si snoda all’ombra delle pareti e senza imprevisti porta prima alla valle successiva e poi a una forcella ghiaiosa che ricorda vagamente il piccolo tratto pietroso che precede la ferrata del Piccolo Cir. E quando dico che ricorda vagamente intendo che è decisamente più facile e meno faticosa, ma che potrebbe comunque farvi venire voglia di far evolvere le vostre mani in due piedi in più e diventare un curioso incrocio tra scimmia e capra: i pollici opponibili della prima e l’equilibrio della seconda. Okay, il solo immaginare questa chimera mi ha fatta nauseare da sola. Se siete ancora in tempo non immaginatevela e proseguite come esseri umani, ossia con poco equilibrio e, nel mio caso, tante scivolate.

In circa mezz’ora, comunque, si arriva così al termine della valle ed è qui che comincia la vera salita.


Vista del verdeggiante altopiano del Puez dalla vetta del Grande Cir

La salita al Grande Cir


Piccola premessa: se cercate online troverete ovunque questa salita indicata come la ferrata del Grande Cir. E io, a essere onesti, non sono probabilmente nessuno per contraddire questa idea ben diffusa, ma nonostante questo la contraddico: secondo me è un sentiero attrezzato. Perché se dovessi chiamare la salita del Grande Cir ferrata dovrei accettare che lo era anche la salita per Re Alberto alle torri del Vajolet che ho fatto l’anno prima. E io l’anno prima ho raggiunto facilmente il Rifugio Re Alberto senza casco né imbrago né dissipatore, esattamente come tutti gli altri escursionisti che salivano quel giorno, perché quello era solo un sentiero attrezzato. Di conseguenza, per una semplice logica di analogia, ribadisco la mia convinzione che il Grande Cir non sia una klettersteig. Detto questo ferrata o sentiero attrezzato che sia, se siete esperti questa salita ve la beve se non lo siete andateci cauti! Fine della premessa.

Una volta, quindi, terminata la valle si individua facilmente la via di salita per la vetta. Perché? Perché, oltre a non poter avanzare perché c’è una roccia ben evidente di fronte a voi (tipo che oscura il sole neanche fosse le frecce di 300), sulla destra si sviluppa una via non troppo verticale su una parete liscia e sporgente. Qui si viene assistiti da un cavo molto utile per evitare di scivolare sul terreno che potremmo definire quasi saponoso.
Questo tratto è breve, 5/10 minuti di salita in tutto, e piuttosto facile, ma nonostante questo il Signor Coso e io, che tanto eravamo ancora attrezzati dalla ferrata precedente, abbiamo pensato di non rischiare e di utilizzare il casco.

Alla fine di questo primo tratto attrezzato si raggiunge un balconcino naturale che offre una meravigliosa vista sulla miglior attrazione della zona: il Rifugio Jimmy. No, okay, lo ammetto: sto scherzando. Non che la vista non sia sul Rifugio Jimmy, ma ci sono attrazioni migliori a cui si può assistere da quel balconcino; d’altro canto il Grande Cir sta comodamente posizionato nel Parco nazionale del Puez-Odle. Però quando ci siamo arrivati noi era quasi ora di pranzo quindi il rifugio mi appariva alquanto allettante da guardare. Lo stomaco è da sempre il comandante supremo del mio corpo! Ave a te, stomaco!

Abbandonata la tentazione potentissima esercitata dalla vista di Jimmy si procede in salita a zig zag su un largo sentiero fino ad arrivare a un secondo e ultimo tratto di cavo. Anche questa volta il tratto è piuttosto breve e su terreno abbastanza liscio, ma nulla di veramente difficile. Dopo si prosegue su sentiero non obbligato, da leggere “prosegui un po’ come ti pare”, su un tratto di roccia gradinata e quindi sulla cresta fino a raggiungere la vetta (2576m).

A differenza di quella del Piccolo Cir la vetta del Grande Cir è ampia, con una croce contornata da numerose bandierine. Una cosa che hanno in comune, però, le due cime è la vista: di fronte trionfa il Gruppo del Sella mentre poco oltre si dipana l’altopiano del Puez; in fin dei conti il giro del Puez ha inizio proprio a pochi passi dai due Cir.


La croce sulla vetta del Grande Cir con le sue bandierine colorate e il Gruppo del Sella sullo sfondo

La discesa dal Grande Cir (con pit stop al Rifugio Jimmy)


Siccome la pioggia sembrava piuttosto intenzionata a cominciare a cadere, in vetta ci siamo rimasti pochi minuti. Giusto il tempo di mangiarci una barretta di cereali. L’ho detto che era l’ora di pranzo. Quindi abbiamo intrapreso la discesa che percorre la stessa via di salita.

Arrivati però alla forcella ghiaiosa invece di prendere il sentiero che ci avrebbe riportato direttamente a Passo Gardena, dove avevamo la macchina, abbiamo coscienziosamente obbedito al mio stomaco e anche a un po’ di senno e abbiamo proseguito dritti per dritti fino a raggiungere il Rifugio Jimmy. E proprio mentre stavamo pranzando è venuta giù tutta l’acqua del mondo. C’è stata tipo una piccola Katrina tutta per noi, il che è sembrato un mezzo deja vu vista l’esperienza di qualche giorno prima con il Col di Lana. Per fortuna nessuno nel rifugio aveva intenzione di buttarci fuori per cui siamo rimasti seduti comodamente al tavolo ad aspettare che spiovesse prima di ridiscendere a Passo Gardena.

Nel complesso, quindi, una buona giornata: due vette conquistate, una ferrata fatta, zero diluvi universali presi in pieno e uno squarcio sul braccio per colpa di un arbusto. Tutto nella norma direi.


Vista dei monti bianco-rossastri che circondano il primo tratto dell'altopiano del Puez

Scheda della ferrata:


Partenza: Piccolo Cir (a piedi)
Arrivo: Passo Gardena (a piedi)
Difficoltà: EEA
Durata: 2 ore circa
Dislivello: 450m
Rifugi: Rifugio Jimmy


Tutte le foto sono mie

venerdì 9 marzo 2018

LA FERRATA DEL PICCOLO CIR

LA VOLTA CHE TORNO VIVA DALLA FERRATA MA POI MI SCHIANTO CONTRO UN ARBUSTO

Lo so: vi ho già raccontato della Ferrata BrigataTridentina e della Ferrata degli Artisti, ma non vi ho ancora raccontato della mia prima volta su una via ferrata e come dice un gran bel gruppo rock italiano “dopo la prima volta prima volta non è più”. E quindi ecco qui la mia prima volta: ecco qui la Ferrata del Piccolo Cir.


Vista del panorama dalla Ferrata del Piccolo Cir con madonnina incastonata nella roccia sulla destra


L’avvicinamento alla Ferrata del Piccolo Cir


Non è stato un caso che la Ferrata del Piccolo Cir sia stata la prima klettersteig della mia vita. Il Signor Coso e io non siamo dei polli al 100% quindi abbiamo fatto una semplice equazione:



prima ferrata = ferrata semplice e non troppo lunga


Se a queste aggiungiamo che il giorno del Piccolo Cir era prevista pioggia nel pomeriggio (solo nel pomeriggio, e in quel periodo questo era un gran miracolo) era praticamente scritto che noi dovessimo fare quella ferrata.

Quindi quella mattina ci siamo messi in macchina e da Colfosco, dove soggiornavamo, siamo andati dritti per dritti a Passo Gardena da dove, dopo un attimo di perplessità perché non eravamo proprio molto sicuri di dove si potesse parcheggiare, siamo partiti per la nostra prima via ferrata. Non stavo nella pelle!

Abbiamo quindi cominciato a salire dritti per dritti ignorando la strada che qualche giorno dopo ci avrebbe portato all’altopiano del Puez e abbiamo raggiunto la stazione a monte della seggiovia Dantercepies, che avremmo potuto anche prendere per arrivare alla base dei due Cir (il Piccolo Cir infatti va a braccietto con il Grande Cir, e chi te lo doveva dire?!) se non fosse che in quel momento era ancora chiusa. A che ora era ancora chiusa? Non lo so: non me lo ricordo. A che ora apre? Non lo so, forse non l’ho mai saputo. Do informazioni lacunose? Sì, ma che vi aspettavate da una che ha aperto un blog per raccontare tutte le volte che è scivolata durante un’escursione?

Superata la stazione, quindi, abbiamo ignorato il Rifugio Jimmy perché raggiungerlo avrebbe significato una deviazione dalla nostra strada. Abbiamo invece continuato su un sentiero acciottolato senza prestare attenzione al Grande Cir: lui sarebbe venuto solo dopo aver conquistato il Piccolo Cir. Avevamo le lancette dell’orologio che ci inseguivano: non potevamo permetterci di perdere tempo e rischiare di stare attaccati a cavi metallici quando sarebbe arrivata la pioggia e il probabile temporale. Quindi abbiamo in poco tempo concluso il sentiero nel ghiaione e, all’altezza del canalone tra i due Cir, abbiamo svoltato a sinistra raggiungendo in poco tempo l’attacco della ferrata.

Strada ghiaiosa circondata dal verde che porta verso la ferrata del Piccolo Cir proveniendo da Passo Gardena


La ferrata del Piccolo Cir


Prima di poter attaccare la vera e propria ferrata bisogna superare un piccolo tragitto di rocce non assicurate dove si deve procedere in un modo vagamente simile all’arrampicata. Questo pezzetto richiede abbastanza fiato, non è proprio una passeggiata, ma non dura troppo: tempo 10/20 minuti si arriva al vero e proprio inizio della klettersteig. 

L’attacco è su di una terrazzina da dove si può godere di una vista stupenda. Il panorama prevede, tra l’altro, l’intero Gruppo del Sella e, sulla destra, il Col Rodella, sede di un’altra meravigliosa ferrata, il Sassolungo e suo “fratello” il Sassopiatto. Il tutto servito, il giorno che lo vidi io, con un abbondante spruzzata di nuvole bianche e grigiastre. Se non ve la sentite di andare oltre vi assicuro che vale la pena già arrivare quassù. Infatti un paio di coraggiosi genitori avevano portato una folla di iperattivi bambini-stambecchi fino a lì per poi riportarli giù. Audaci e pazienti quei genitori!

La ferrata comincia con una breve scaletta dopo cui si aggira uno spigolo di roccia. L’inizio è molto soft il che rende il Piccolo Cir la ferrata perfetta da cui iniziare. Durante tutta la salita, per altro, si procede con rocce e massi alla propria destra e alla propria sinistra. Nonostante l’esposizione sia evidente guardando in basso (in alcuni tratti si vede tutta la Val Gardena sotto di sé) si ha la percezione che non si rischi mai di fare un volto troppo alto se si cadesse, il che evita di entrare nel panico se per caso si soffre di paura del vuoto e non si dovesse sapere perché… beh! Perché è la prima volta che ci si trova realmente sospesi nel vuoto. Quindi no, vi assicuro che questo panico non vi prenderebbe sul Piccolo Cir. A me per esempio mi ha colto due giorni dopo sulla Tridentina, ma per fortuna poi mi è passata.

Ammetto, comunque, che anche se io non mi sono mai particolarmente agitata sul Piccolo Cir il Signor Coso, invece, ha trovato la salitella che segue lo spigolo di roccia abbastanza impressionante perché non offriva sufficienti appigli per farlo sentire sicuro al 100%. Comunque, a parte quel tratto, anche lui concorda sul fatto che tutta la ferrata sia tranquilla e piacevole con una gradevole alternanza di salite poco faticose e percorsi orizzontali su rocce curve. Ogni tanto c’erano anche dei piccoli traversi aerei dove io ripetevo ogni volta “perdonami madre per mi vida loca”. Sì perché mia madre detesta che io per divertirmi vada a passeggiare in parete e ogni volta che mi attacco a un cavo metallico lei perde dieci anni di vita. Scusa mamma, ma poteva andare peggio: fino a diciotto anni volevo fare paracadutismo. Almeno nelle ferrate il gioco è non cadere.

Comunque dopo un piccolo rognoso canaletto dove ho avuto qualche difficoltà a recuperare il cavo in alto (mai come quel giorno mi sono sentita bassa: grazie Piccolo Cir!) e aver camminato per un po’ su un pianoro dove non era necessario l’uso di alcun cavo siamo arrivati al tratto finale. Quella è la vera rogna! La vetta è sulla cima di un’ultima roccia spaccata a metà dove io mi sono praticamente infognata. Il cavo è a sinistra della spaccatura, ma il chiodo dove far leva con lo scarpone, unico appoggio possibile, è a destra e a una altezza che mi ha fatto ripensare all’idea che ho sempre avuto di me ossia “non sarò alta, ma almeno ho le gambe lunghe”. No, non ho neanche le gambe così lunghe a quanto pare. Arigrazie Piccolo Cir!

Alla fine però, contro ogni pronostico, sono riuscita anche io ad arrivare in vetta (2520m), un pezzetto di terra 2x2 dove ho trovato il Signor Coso, due tedeschi che erano saliti in sneakers e nessuna croce. No, perché qualche hanno fa sul Piccolo Cir c’è stato un crollo e adesso la croce sta più in basso della vetta su un altro montarozzo. Cose che capitano nella vita.



La discesa dalla cima del Piccolo Cir


Nonostante avessimo fatto un tour de force e avessimo calcolato i tempi proprio mentre eravamo su quella minuscola cima ha cominciato a piovere. In realtà era una finta, ma noi in quel momento non lo sapevamo. I tedeschi credo di sì perché non si scomposero molto. Noi invece ripartimmo subito.

Scendere per quella roccia è forse peggio che salire. Bisogna farlo dando le spalle agli appigli e, se siete goffi come me, 10 a 1 che vi si incastra lo scarpone nella fenditura. Comunque alla fine se ne viene fuori, specie se il Signor Coso è sceso prima di voi.

Abbandonato il masso si potrebbe decidere di riscendere attraverso la via ferrata, ma non è mai la migliore scelta percorrere una klettersteig in discesa perché da una parte diventa più difficile e dall’altra si finisce per incrociare chi sale e le vie ferrate non sono una strada a doppia corsia. Consiglio quindi l’alternativa che abbiamo adottato il Signor Coso e io: svoltare a sinistra e scendere ripidamente per un tratto attrezzato lungo dei gradoni. Da qui si raggiunge il canalone e si resta sempre ben attaccati al cavo fino a che c’è possibilità.

Quando il cavo cessa dovrebbe passare anche il rischio di capitomboli. Allora il Signor Coso e io ci siamo tolti il casco, abbiamo messo via il dissipatore e abbiamo ripreso a scendere con tranquillità. Ci siamo persino complimentati perché non eravamo scivolati mai durante la nostra prima ferrata ed eravamo tutti interi, tralasciando i mille lividi che mi sono procurata io dando ginocchiate alle rocce (però ne ho date così tante che scommetto che anche il Piccolo Cir qualche livido se l’è procurato). Insomma eravamo soddisfatti. È a quel punto che è successo: sono scivolata e mi sono fatta venti centimetri di discesa con il sedere a terra fino a che un santo arbusto non ha frenato la caduta chiedendo in cambio soltanto un terzo della pelle sul mio braccio sinistro. Però mi ha dato in omaggio un bel graffio. La scena deve essere stata divertente perché poco distanti i tedeschi, gli stessi della cima (ma davvero? Che fanno si teletrasportano sti tedeschi? Come facevano a stare già lì?), abbarbicati sotto le rocce a mangiare sono scoppiati a ridere che neanche lo sconosciuto del Monte Camicia per i mirtilli del Signor Coso. Sadici tedeschi! Guardate che non è un evento così raro vedermi cadere eh!? Chissà a che si pensavano di aver assistito.

Va beh! Comunque a parte il graffio e l’orgoglio ferito stavo piuttosto bene, mancava ancora un po’ all’ora di pranzo, la pioggia aveva smesso di fare scherzetti e sembrava intenzionata a lasciarci ancora qualche ora di quiete, quindi invece di ripiegare immediatamente verso il Rifugio Jimmy abbiamo deviato a sinistra e via di nuovo a passo di marcia verso il Grande Cir.

La croce della vetta del Piccolo Cir vista dalla vetta del Grande Cir

Scheda della ferrata:


Partenza: Passo Gardena (a piedi)
Difficoltà: EEA
Durata: 2 ore circa 

Dislivello: 390m (di cui 100m di ferrata) 
Rifugi: Rifugio Jimmy

Tutte le immagini sono sono mie e del Signor Coso. Le riprese video sono state fatte da me con l'action camera, il montaggio è mio e del Signor Coso, la musica è royalty free ed è stata presa da Bensound

venerdì 2 marzo 2018

IL GIRO DEL LAGO COVEL

LA VOLTA CHE… “WOW QUANTI PASSEGGINI! MA DAVVERO?”

Là fuori ci sono genitori, zii, nonni, babysitter con tanti piccoli “pampini” urlanti che mentre puliscono i nasini sognano la montagna, le escursioni e la natura. Ecco, l’articolo di oggi è dedicato a loro. Perché chi lo ha detto che la montagna è solo salite tipo il Sassongher? Ci sono anche escursioni più facili come il giro del Lago Covel in Val di Sole.

Il Lago Covel circondato dai monti nel Parco Nazionale dello Stelvio in una giornata assolata d'estate

L’inizio del giro del Lago Covel da Pejo Fonti


Lo ammetto: il giro del Lago Covel non era programmato, ma il giorno prima avevamo fatto il giro dei laghi del Cevedale per cui io ero completamente a corto di energia e siccome il giorno dopo era previsto il Vioz, pensammo bene che un’escursione tranquilla potesse fare al caso nostro. Anche perché dovevamo testare i bastoncini da nordic walking che il meraviglioso proprietario dell’albergo ci aveva gentilmente prestato per la salita al Vioz (sì, lo stesso meraviglioso proprietario il cui consiglio mi ha ridotto a uno straccio straccino straccetto sul Vioz. Ah! I complessi contrasti della montagna!).

Quindi partendo neanche troppo presto dal nostro albergo a Cogolo raggiungemmo in autobus la funivia di Pejo Fonti che in pochi minuti ci portò al rifugio Scoiattolo (2000m) da cui inizia questa escursione alla portata veramente di tutti e che si snoda nello spettacolare paesaggio del Parco nazionale dello Stelvio.


Il panorama del bosco di larici e delle montagne sullo sfondo del Parco Nazionale dello Stelvio sulla sentiero n. 127 per il Lago Covel

Il giro del Lago Covel


La prima cosa da fare scesi dalla funivia è ignorare il canto delle sirene di Pejo 3000, che porterebbe al Vioz, e quello della funivia di Doss de Cembri che, oltre a portare anche lei al Vioz, permettere di attaccare il meraviglioso Sentiero dei tedeschi. Lo so che è tosta, ragazzi, ma su! Se ce l’ha fatta Ulisse ce la possiamo fare anche noi!

Si aggira quindi la stazione a monte della funivia e si prende il sentiero n. 127 ben segnalato da un cartello. Si inizia così la discesa passando per un po’ sotto i cavi della funivia Pejo 3000 e immergendosi per circa un’oretta nel bosco di larici che, senza troppi imprevisti, porta alla meta. Si incrocia anche il Rio di Vioz, un bel fiumiciattolo su cui si è costretti a passare su ponticelli più o meno improvvisati fatti di assi di legno. Ammetto che quel tratto di strada ha soddisfatto particolarmente la me bambina, la cui età si aggira intorno ai 5 anni (ma ogni anno si riduce un po’) e che per poco non mi ha fatto fare un tuffo nel fiume per saltellare sulle rocce a fianco al ponticello. Quindi se avete bambini con voi posso assicurarvi per esperienza personale che gli piacerà il Rio di Vioz.

Da lì in poco tempo si raggiunge il Lago Covel (1839m). La sua vista è molto carina anche se l’estate in cui ci siamo andati noi era un po’ emaciato per il troppo caldo. Prima la Mamolada e poi il Lago Covel… niente! Si vede che è il mio destino trovare ghiacciai e laghi sciupati.

Interessante nozione di biologia: nel Lago Covel sembra esserci una florida colonia di Sanguinerola. Chi sa cos’è la sanguinerola? Dal nome io avrei scommesso una sanguisuga o qualcosa di comunque terribilmente vampirico. Invece è un raro esemplare di ciprinide di alta montagna. Tutto chiaro ora eh! No?! Nessun pescatore tra di voi? A quanto dice il signor Google la ciprinide è un pesce. Ci dobbiamo fidare perché io sono una vera ignorante in fatto di pesci, o animali in generale. Comunque se volete la potete vedere qui (ma ignorate il fotomontaggio del muso di un maiale sul corpo di pesce, quello è falso).

A pochi passi dal lago, a sinistra, si raggiunge la Cascata Cadini e proprio qui cade l’asino. Sapete qual è il problema di un giro facile come questo? Che ci va praticamente chiunque, anche chi non sa neanche come è fatta una montagna. Quindi arrivati alla cascata più che riuscire a vedere le belle acque del Rio di Vioz che precipitano per qualche metro il Signor Coso e io abbiamo visto teste, tante teste, troppe teste. C’era una flotta di gente! Un sacco di genitori, tantissimi bambini, pure qualche cane e un paio di passeggini. Davvero! Si erano portati i passeggini in un’escursione. E in effetti per come è fatto il tratto di sentiero che va dal lago Covel alla Cascata Cadini e oltre il passeggino ci può pure stare.

Quindi sì, lo avevo detto: il giro del Lago Covel è perfetto per tutti quelli che sono incastrati con “pampini” urlanti e che vogliono fare trekking in Val di Pejo. Ma da mostro orrendo che non ha bambini e che ama le escursioni (soprattutto le escursioni silenziose e tranquille) mi permetto qualche consiglio a tutti i genitori/zii/nonni/quel che vuoi là fuori. Portare i vostri bimbi in facili escursioni è un’idea meravigliosa ma:

  1. Per favore insegnategli a essere educati perché sul sentiero non ci sono solo loro 
  2. Abbiate la compiacenza di dare modo a tutti di fare foto ricordo e non passate davanti agli obiettivi degli altri (davvero! Non ho mai visto così tanta gente non avere cura delle altre persone presenti nella stessa zona) 
  3. Tenete a bada i vostri cani, sempre perché sul sentiero non ci siete solo voi (e di solito un sentiero non è un’autostrada in fatto di larghezza) 
Dopo aver goduto, per quanto possibile, della bella vista della cascata si continua l’escursione passando sul bel ponte di legno e seguendo il sentiero che passa accanto ai campi coltivati. Qui praticamente abbiamo assistito a un tacito scontro non totalmente consapevole tra turisti e contadini. I vari turisti passando con cagnolini, bambini, passeggini ecc... non facevano troppo caso a dove mettevano i piedi e piuttosto spesso facevano per sbaglio cadere sassi e pietre nei campi. I contadini che stavano lavorando in quel momento, dal canto loro, li rilanciavano sul sentiero in modo più che consapevole, sempre attenti a non colpire nessuno ma sicuramente (a giudicare dalle loro facce) sognando di poter fare tiro a piattello.

Comunque in breve tempo ci si allontana dai campi e si torna sulla strada asfaltata quindi siamo tutti riusciti a limitare, per quanto possibile, il fastidio dato agli agricoltori.


Il Rio di Vioz nel Parco Nazionale dello Stelvio, sulla strada per il Lago Covel, visto subito dopo il ponticello di legno che lo sormonta

Il ritorno a Pejo Fonti passando per Pejo Paese


Sulla strada asfaltata il nostro cammino si è fortunatamente separato da quello di tutta quella gente stile gita scolastica. Mentre loro avevano una colonna di macchine che li avrebbe riportati a Pejo Fonti il Signor Coso e io abbiamo continuato a piedi verso Pejo Paese imboccando un sentierino che in breve si distacca dalla strada asfaltata e che, passando sotto i piloni della funivia, prosegue in falsopiano in un prato.

Dopo circa un’altra mezzoretta di cammino abbiamo così raggiunto il dosso di San Rocco (1584m) dove sorgono la Chiesa di San Rocco e il cimitero militare. La chiesa è stata edificata per la prima volta nel 1400, ma solo durante la prima guerra mondiale ha ricevuto delle mura esterne volte anche a delimitare il nuovo, all’epoca, cimitero dove riposavano caduti di diverse nazionalità: austriaci, russi, prigionieri polacchi e anche qualche italiano. Di loro, ormai, non rimane nessuno laggiù perché nel 1921 le salme furono spostate nell’Ossario di Rovereto. Negli ultimi anni, però, sono stati portati nel cimitero militare alcuni soldati di quell’epoca, non identificati, trovati congelati in alta montagna.

Dopo aver visto chiesa e cimitero il Signor Coso e io ci siamo guardati in faccia, abbiamo guardato l’orologio e, siccome era ora di pranzo, abbiamo sentenziato che era tempo di tornare a Pejo Fonti per mangiare. Purtroppo l’autobus non sarebbe passato prima di un’ora quindi eravamo costretti a tornare giù a piedi. Non ci sembrava però una gran tragedia se non fosse che, dopo un po’ che camminavamo sulla carreggiata asfaltata, ci è sorto il dubbio di aver sbagliato strada: non stavamo scendendo abbastanza. Abbiamo quindi capito che, invece di andare diretti a Pejo Fonti, stavamo sulla strada che ci avrebbe portato in località Fontanino, qualche chilometro fuori strada.

Avevamo troppa fame ed eravamo troppo stanchi per andare fino in fondo su quella strada, d’altro canto tornare indietro fino al bivio con la strada giusta era ormai impensabile. E lì è arrivato il colpo di genio! Siamo escursionisti no?! Camminare nei prati, in pendenza, senza un vero sentiero tracciato davanti ai piedi è quel che facciamo per divertirci. E quindi niente, come si dice dalle mie parti, abbiamo tagliato per fratte, alias abbiamo cominciato a scendere per un prato che ci avrebbe ricongiunto alla strada giusta. Unica piccola pecca? Una certa pendenza e il rischio di finire dentro casa di qualcuno, quasi è successo. Quasi, per fortuna siamo riusciti ad evitarlo.

Quindi è finita così la nostra facile e tranquilla escursione del giro del Lago Covel: perdendoci alle porte di un paese, per strade asfaltate. Perché quando ci siamo di mezzo noi non può mai andare tutto liscio; altrimenti dove sarebbe il divertimento.


Le tombe ben curate dei soldati non identificati della Prima Guerra Mondiale nel cimitero militare della Chiesa di San Rocco a Pejo Paese

Scheda dell’escursione:


Partenza: Pejo Fonti (funivia)
Arrivo: Pejo Fonti (a piedi)
Difficoltà: E
Dislivello: 416m
Durata: 3 ore circa
Sentieri: 127
Rifugi: Rifugio Scoiattolo


Tutte le fotografie sono mie e del Signor Coso