venerdì 24 novembre 2017

LA SALITA AL SASSONGHER

LA VOLTA DI "SCOMMETTO CHE SAREBBE UN BEL PANORAMA SE STA NUVOLA NON FOSSE COSÌ PRIMA DONNA"

Devo fare una confessione: ho tradito una volta! Ricordate quando vi ho detto che il mio grande amore è il Vioz? Ecco, prima del Vioz c’era un altro e… come dire? Beh, sì! L’ho tradito. Povero Sassongher! Non se lo meritava! D’altro canto lui mi ha regalato un’escursione faticosa, ma quasi serena, a differenza del Vioz. Sarà che, forse, un po’ masochista lo sono…
Comunque ecco la storia di com’era prima che ci fosse il Vioz.




Il Sassongher visto da Corvara


La partenza da Colfosco



Il Sassongher è stato il primo monte che ci ha regalato la vetta l’estate in cui eravamo a Colfosco, quella della Tridentina per intenderci.
A guardarlo da sotto un po’ incuteva timore con quella sua altezza, specie perché si doveva partire dal paese. Immaginatevi la scena: io nel bel mezzo di questo infinito rettilineo che è in sostanza Colfosco tiro su il naso e fisso questo monte che domina la gola e tutta serena chiedo “e quindi quale sarebbe questo Sassongher?” e il Signor Coso punta il dito proprio verso il colosso. Lo ammetto: mi è preso un colpo. Ma ho dissimulato, giuro! Sto diventando bravissima a dissimulare. 


La mattina, dopo muniti di entusiasmo e una giusta dose di fretta (il meteo prometteva pioggia nel pomeriggio), abbiamo raggiunto in pochi minuti la chiesa di Colfosco (1645mt), un piccolo e delizioso edificio col suo fascino minuto di chiesetta di montagna. Da qui parte la strada che permette di raggiungere il Rifugio Edelweiss. Da prima è una strada asfaltata, ma poi si fa sempre più sterrata e, comunque, fin dal primo passo mantiene una pendenza che la dice lunga sull’intera salita alla vetta. Mettiamo subito le cose in chiaro: salire al Sassongher non richiede troppo tempo, ma di certo pretende buone gambe e buoni polmoni perché la strada è molto, ma molto ripida. E infatti già dopo i primi minuti io stavo ansimando e, come mio solito, mi stavo togliendo i 110 strati di vestiti che mi ero messa addosso appena avevo messo il naso fuori dall’hotel. Ma questo è normale.


La vista salendo per la cima del Sassongher



La salita al Sassongher



Sbagliare strada dal Rifugio Edelweiss è praticamente impossibile. Per salire al Sassongher basta prendere il sentiero 4 e andare dritti per dritti attraverso la Valle Stella Alpina. Bisogna solo fare attenzione a dribblare gli animali lasciati liberi al pascolo, ma non è nulla di così infattibile. Insomma non è che giochino a mettervisi in mezzo ai piedi. In effetti i cavalli (o erano asini?) che brucavano l’erba intorno al rifugio non sembravano interessati a fare da ostacoli sul sentiero, non come certe mucche che si incontrano sul Col di Lana, ma lasciamo stare: questa è un’altra storia.

Il lato positivo di procedere per una salita che in ogni suo centimetro è sicura di essere una salita (davvero? Neanche un piccolo dubbio? Una minima esitazione a forma di vaga pianura? Niente? Ok Sassongher, come vuoi tu: e tutta salita sia!) è che alla fine impari una delle regole auree dell’andare in montagna: tappati la bocca e risparmia il fiato! Il che è difficile per me perché, se non si fosse ancora capito, io sono una di quelle persone a cui vengono in mente milioni di cose da dire proprio quando non dovrebbe dirle e così quando vado in montagna divento logorroica, più del solito per lo meno. Però il Sassongher ha fatto il gran miracolo di azzittire anche me. Credo che il Signor Coso lo abbia amato per questo, ma non ho prove: è troppo furbo per ammettere che è vero.

L’unico bivio che si incontra sul sentiero 4 è alla Forcella del Sassongher (2435mt). Da qui se si gira a sinistra si può raggiungere l’altopiano del Puez mentre a destra si dipana il sentiero 7 che raggiunge la vetta del Sassongher.

Se il sentiero 4 è ripido ma arioso e tranquillo, il sentiero 7 è a tratti esposto e ancora più ripido. Avanza su ammassi detritici e gradoni di roccia che, però, non ricordo mi abbiano fatto cadere, anche se questa mia stabilità è davvero poco probabile. È più probabile, invece, che io sia caduta talmente tante volte che il mio orgoglio ferito ha lavorato per produrre una chiara e ovvia amnesia selettiva. Sarebbe facile scoprire la verità se non fosse che anche il Signor Coso sembra ricordare poco di questa salita. Sarà che non ci sono successe grandi tragedie; o forse il mio orgoglio ha prodotto un’amnesia anche per lui… è un tipo inquietante il mio orgoglio... Quindi per non istigarlo a far esplodere questo blog e venire a cercare tutti i suoi lettori atteniamoci alla versione di una me stabile e salda sulle sue gambe manco fossi un capriolo.
L’ultima parte del sentiero è forse il punto più delicato perché si procede con funi metalliche. Sono pochi metri di sentiero attrezzato, ma potrebbe mettere in difficoltà un escursionista inesperto che ignora di trovarselo lì, a qualche metro dalla vetta. Se si riesce a tenere duro e a superarlo, però, si raggiunge finalmente la cima del Sassongher (2665mt) da cui si può ammirare una bellissima vista sulla Val Badia, o almeno così mi hanno detto. Perché – ebbene sì – il meteo non mentiva. Quando siamo arrivati in vetta ancora non pioveva, ma una gigantesca nuvola aveva deciso di anticiparci, prendere possesso della cima e reclamarla come suo possedimento. Un gesto decisamente prepotente se posso dire la mia. Il risultato, comunque, è stato che abbiamo visto tanto grigio tutto intorno. Cosa che si può vedere anche in Val Padana senza farsi 1.020 metri di dislivello, ma va beh.


Panorama dalla vetta del Sassongher



Il ritorno a Colfosco



Siccome, appunto, il meteo non sembrava aver sbagliato il Signor Coso e io ci siamo goduti la vetta il tempo necessario a individuare uno stambecco (o era un capriolo?) sul massiccio di fronte e poi abbiamo ricominciato in tutta fretta la discesa.

La cosa buffa è che passavamo accanto a persone che erano chiaramente intenzionate a stazionare in vetta durante il temporale che sarebbe esploso di lì a qualche ora perché restavano a banchettare sulle rocce o salivano quietamente in ritardo verso la cima. Per cui a guardarci da fuori la scena doveva apparire così: una matassa di gente tranquilla, serena e assennata e due pazzi che si affrettavano a tornare giù dopo essere stati neanche un minuto in vetta. Per amor di cronaca: poi ha piovuto davvero però.

Comunque la discesa è lungo lo stesso sentiero di salita, quindi c’è poco da raccontare. Giusto che ci siamo fermati al Rifugio Edelweiss a mangiare. Il Signor Coso si è spazzolato via una Kaiserschmarrn; ci ha tenuto a specificarlo, vai a capire perché: immagino fosse buona. Di quello che ho mangiato io, come al solito, non ho memoria. In realtà le cose che ricordo meglio di tutta questa escursione sono il terreno brullo e grigio del Sassongher e la frase che mi sono canticchiata in testa a ripetizione per tutte le 6 ore del giro: “sei tu l’inizio di ogni cosa che tu immagini e sei la fine di ogni limite che superi, sei tutti i limiti che superi”. Dieci punti a chi indovina che canzone è senza andare a vedere su Google (dai, che è facile)!


I massicci che circondano il Sassongher visti dalla vetta

Scheda dell'escursione


PartenzaColfosco (a piedi)
ArrivoColfosco (a piedi)
Difficoltà: EE 
Durata: 6 ore circa 
Dislivello: 1.020mt


Le fotografie sono mie e del Signor Coso

venerdì 17 novembre 2017

IL GIRO DI ROCCA CALASCIO

La volta di "20KM in 4 ore? Ma mi hai preso per Flash?" e infatti sono state 8 ore

Piccolo, necessario alert iniziale: il giro di Rocca Calascio è facile. Non serve essere escursionisti. Ma questo se andate e tornate, niente giri strani. Se invece fate il giro che abbiamo fatto noi… oh! Ho pietà di voi in quel caso.


L'avvicinamento al giro di Rocca Calascio


Ogni volta che cerco foto del Gran Sasso tra il Corno Piccolo e il Corno Grande esce Rocca Calascio, che poi sarebbe il rifugio dell’eremita di Lady Hawke per capirci. E visto che è tanto famosa, fotografata e facile da raggiungere (ci si può arrivare persino in macchina) cosa poteva andare storto in un’escursione per andarla a vedere?
Tutto!

Che il giro non sarebbe stato facile come previsto lo dovevo capire dalle indicazioni di una precisione inquietante, del tipo “al cartello (quale?) girare a sinistra prendendo la strada che poi diventa stradina (che vuol dire?) e quindi viottolo (eh?)”. Insomma non erano proprio delle migliori. Però erano quelle che si trovavano più o meno su tutti i siti, compreso quello di un CAI, quindi ero ottimista. Il Signor Coso invece era nervoso e poco convinto. Il Signor Coso aveva ragione. Qui lo dico e qui lo nego; fosse mai che si monta la testa.

Già per trovare il parcheggio sono cominciati i problemi. Arrivati al paese di partenza, Santo Stefano di Sessanio (1251mt), siamo stati colti da una labirintite quasi profetica. Indecisi se procedere, girare, parcheggiare in luoghi improbabili, perderci per sempre, abbiamo imboccato una stradina che solo dopo avremmo capito essere sbagliata e abbiamo parcheggiato di fronte alla Locanda sul lago. Che poi di lago non c’era traccia. Giusto una pozza d’acqua che a me sembrava più un pantano. Ma perché spezzare i sogni di gloria di una pozza? E allora lago sia.

Anche se avevamo sbagliato parcheggio, miracolosamente abbiamo preso la strada asfaltata corretta e sotto un sole cocente (e per fortuna che doveva fare freddo, maledetto meteo!) abbiamo cominciato a salire con in testa una tempistica che non sarebbe mai stata in piedi. Perché oltre ad avere indicazioni ridicole avevamo anche tempi di percorrenza irrealistici. Ah! La bellezza di fare escursioni sull’appennino!

Comunque la strada giusta l’abbiamo abbandonata presto perché abbiamo incontrato un cartello, abbiamo creduto che fosse quello giusto e abbiamo deviato a destra per una strada che a ogni metro sembrava sempre più sbagliata. Lo era! Lo abbiamo capito dopo circa 15 minuti e di strada ne avevamo fatta. E allora dietro front e ripartiamo in salita. Ma va beh! Una svista ci sta. Il resto sarebbe andato bene no?! Alla fine abbiamo trovato anche il parcheggio vero. Ah! Ingenua me!



Rocca Calascio illuminata dal sole

Arrivare a Rocca Calascio da Santo Stefano di Sessanio


Dal parcheggio (quello vero, non il nostro) parte una strada sterrata che ha una grande qualità: è una linea retta senza incroci, bivi o traverse. Della serie che neanche una come me, che mi perdo anche dietro casa, può riuscire a sbagliare. Quindi tutta dritta fino al famoso cartello, perché sì il cartello c’è. Da lì siamo andati a destra e abbiamo cominciato a salire e in poco tempo abbiamo visto la rocca in lontananza. Ancora una mezzoretta e siamo arrivati all’Oratorio rinascimentale della Madonna dei Monti e, poco più su, alla Fortezza di Rocca Calascio (1460mt).

I ruderi della rocca hanno il loro fascino. Si possono percorrere in lungo e in largo e se avete la fortuna di capitare nel giorno giusto potete anche entrare nella torre. Noi ovviamente ci siamo andati nel giorno sbagliato. Ma questo è il minimo, nel complesso
.


Ruderi di Rocca Calascio


Il ritorno da Rocca Calascio a Santo Stefano di Sessanio


A questo punto potevamo tornare sui nostri passi e raggiungere la macchina quasi intonsi. E invece, non contenti di esserci persi già solo per raggiungere la rocca, abbiamo pensato di continuare a dare fiducia alle nostre indicazioni. Grande idea!

Siamo scesi lungo l’abitato di Rocca Calascio quasi del tutto abbandonato e abbiamo raggiunto il centro storico di Calascio (1210mt) attraversando un sentierino in mezzo al prato. Abbiamo persino trovato una chiesetta piccolina che nessuno degli altri turisti si filava, ma che io ho trovato meravigliosa. E okay la mia parte più blasfema ci voleva mangiare dentro per sfuggire al vento, ma questo non toglie che fosse bella e poi alla fine i miei compagni di sventura hanno avuto la meglio e abbiamo mangiato in mezzo alla “tormenta” appoggiati a un guardrail. 



Comunque stando alle nostre balzane indicazioni da Calascio si può tornare a Santo Stefano di Sessanio in autobus. Sarà vero? Non lo so. A questo punto io non credo più a nulla di quello che dicono quelle indicazioni. Di certo io non ho visto neanche una fermata. Non che comunque avremmo aspettato il bus, eh! Anzi abbiamo subito placcato l’unica persona che siamo riusciti a trovare per strada a Calascio per chiederle indicazioni per Castelvecchio Calviso, il prossimo paese che avremmo dovuto incontrare. Ci ha guardato come se fossimo pazzi (giustamente) ma poi ci ha detto come arrivarci. Però deve essere un vizio del luogo dare indicazioni confuse perché assomigliavano un sacco a quelle del sito.


Vista della valle della Rocca Calascio


Incredibilmente, comunque, siamo riusciti a trovare il sentiero che ci serviva. Proprio al termine delle case, sulla sinistra, c’è questo sentierino che si perde nel verde e nei rovi. È l’unico che si incontra in questo percorso che abbia delle indicazioni minimamente sensate con cartelli e segnavia bianchi e rossi. Purtroppo è vecchio e mal tenuto quindi a un certo punto scompaiono. Però allora avevamo già superato talmente tanti rovi che avremmo potuto salvare cinque volte la Bella Addormentata, quindi abbiamo proseguito per il Piano Buto.

Tornati sulla strada asfaltata abbiamo strisciato fino a Castelvecchio Calviso (1045mt). A questo punto erano passate da tempo le quattro ore promesse dal sito e ci eravamo resi conto di aver fatto un terribile errore a fidarci. E il bello è che tutti gli abitanti che abbiamo incontrato davano l’impressione di crederci degli imbecilli per aver deciso di fare quello che, solo tornati a casa, abbiamo poi scoperto essere un giro di 20km. VENTI CHILOMETRI! In quattro ore? Ma che si è fumato quello che ha stilato quel percorso?

L’ultimo pezzo di strada è stato forse il più delirante. In realtà è un sentiero che si snoda a zig zag per tutta la vallata e risale fino a Santo Stefano di Sessanio. Ha anche cartelli in ogni dove. Peccato che giochino a inventarsi i numeri. Uno ti dice che mancano 45 minuti, quello dopo 25 e quello dopo 50. Ma stiamo scherzando? Chi li ha fatti sti cartelli: Topo Gigio?

Morale della favola: ci abbiamo messo otto ore a fare tutto il giro. Alla faccia delle 4 ore!

La menzione d’onore di questa storia, comunque, la vincono:

  1. La signora francese che abbiamo incontrato sulla strada del ritorno e che alla domanda su quale strada prendere al bivio ci risponde in modo molto casual e tranquillo: “entrambe portano a Santo Stefano, potete scegliere quella che volete. Ah, comunque su quella a sinistra c’è un cinghiale”. Ah! Okay… chissà perché siamo andati a destra 
  2. Wini, promotrice dell’escursione e inizialmente ottimista come me sulle nostre indicazioni, che alla fine era talmente stanca e distrutta che era diventata il burattinaio di se stessa. Quando non guardavamo si afferrava i pantaloni e a pugni chiusi tirava con tutte le sue forze per convincere le sue gambe a continuare a camminare. Cielo! Non sapete quanto pagherei per averglielo visto fare!

Vista della valle e dell'Oratorio rinascimentale Madonna dei Monti vicino a Rocca Calascio


Scheda dell'escursione


PartenzaSanto Stefano di Sessanio (tramite sentiero)
ArrivoSanto Stefano di Sessanio (tramite sentiero)
Difficoltà: E 
Durata: 8 ore circa 
Dislivello: 590mt


Le fotografie sono di Wiiiiiwoman e Wini che mentre si perdevano nelle vallate abruzzesi sono riuscite a fare foto meravigliose (sono abbastanza sicura che questo sia un super potere, alla faccia di Batman!) e mi hanno permesso di usarle per il blog (segno che forse sono riuscita a non farmi odiare nonostante la scarpinata)

venerdì 10 novembre 2017

LA FERRATA BRIGATA TRIDENTINA

La volta della fila di 4 ore (manco fossimo all'apertura di un Apple Store)

Oggi niente escursione, oggi parliamo di vie ferrate! E da dove cominciare se non dalla regina delle regine delle vie ferrate, o per lo meno dalla più famosa? La Brigata Tridentina è la ferrata per antonomasia, quella che sentite sempre nominare quando cominciate a pensare di mettervi a “passeggiare” in parete, quella che vogliono provare un po’ tutti… e che poi provano tutti, nello stesso momento, peraltro.
Quando ero piccola io mi arrampicavo su praticamente qualsiasi cosa: alberi, muretti, armadi… e saltellavo su qualsiasi roccia. Poi sono cresciuta e ho un po’ smesso di farlo, però qualcosa mi deve essere rimasto di quella voglia di saltellare e arrampicarmi perché quando il Signor Coso mi ha spiegato cosa fossero le ferrate non stavo nella pelle. Soprattutto per la Tridentina avevo grandi aspettative e invece… ma non anticipiamo troppo i tempi.


Vista del Sas de Lec al termine della Ferrata Brigata Tridentina

L'avvicinamento alla Ferrata Tridentina



L’estate in cui il Signor Coso e io abbiamo cominciato a fare ferrate eravamo andati in vacanza a Colfosco e praticamente ogni giorno guardavamo il meteo perché la nostra fortuna metereologica sembrava averci abbandonato. Ogni pomeriggio pioveva, per cui dovevamo scegliere con attenzione la giornata per attaccare la Tridentina: l’ultima cosa che volevamo era trovarci in vetta o sulla via di ritorno durante un temporale. Così al primo giorno sereno non abbiamo neanche dovuto parlarne: si andava a fare la nostra seconda ferrata (perché la prima era stata quella del Piccolo Cir, ma questa è un’altra storia).

Per cui ci siamo messi in macchina e siamo partiti verso Passo Gardena. A circa metà strada c’è la piazzola da cui parte il sentiero che in cinque minuti porta alla ferrata (1956mt). Erano circa le otto di mattina e la piazzola era già abbastanza piena. Vi faccio un facile spoiler: non era un buon segno. Chiunque vi parli della Tridentina vi dirà una cosa: attaccatela presto! E presto, in montagna e soprattutto sulla Tridentina, non sono le otto! Forse sono le sei o magari anche le cinque. Ma lo sapete voi a che ora ci si deve svegliare per attaccare la Tridentina alle cinque? E a che ora si deve uscire dall’albergo? Ma soprattutto sapete da che ora viene servita la colazione in hotel? In quello dove stavamo il Signor Coso e io dalle sette di mattina. Ed è la colazione! Devo aggiungere altro? Insomma io scelgo l’hotel in base alla colazione. Così la gola (e forse anche un po’ la pigrizia) ha vinto sulla logica e i buoni consigli e siamo partiti tardi.

La piazzola, quindi, era già abbastanza affollata e anche il breve sentiero e – rullo di tamburi inutili – anche la ferrata. E qui sono cominciati i problemi perché la folla che riempiva la Tridentina era formata soprattutto da incompetenti, del tipo persone che tenevano un connettore del dissipatore a y attaccata all’imbrago. Il modo migliore per morire in una caduta, per capirci. Non la situazione ideale per attaccare una klettersteig, se volete il mio parere.

Un tratto della Ferrata Brigata Tridentina

La ferrata Brigata Tridentina




La ferrata Tridentina è divisa essenzialmente in tre tratti e sulla carta richiede 3 ore. Nella realtà a noi ce ne ha richieste 4 e mezza e non perché fossimo lenti, ma perché ci si fermava in continuazione e si restava immobili lì, in parete, per interi minuti. In sostanza la Tridentina è la Salerno-Reggio Calabria delle vie ferrate.

Il primo tratto è piuttosto facile nonostante si inizi subito con un’ascesa verticale in parete. Una serie di staffe aiuta la progressione. L’unico fastidio è l’umidità. I miei occhiali si appannava continuamente, il che rendeva la salita una bella sfida e al tempo stesso mi faceva sognare di aver comprato degli occhiali con i tergicristalli. In quei minuti erano diventati il mio chiodo fisso, poco ci mancava che scrivessi una letterina a Babbo Natale per chiederglieli in regalo.

Alla fine del tratto si incontra sulla destra la via che sale da Passo Gardena. Sulla sinistra invece iniziano una serie di saliscendi facili e non impegnativi, quasi rilassanti, che conducono fino al vero gioiellino per cui questa malefica ferrata si guadagna un po’ della mia simpatia: la Cascata del Pisciadù. La Brigata Tridentina è malefica, antipatica, ti lascia a lungo appesa a una parete ad aspettare il tuo turno per avanzare meno di un metro, ma ti offre uno di quei panorami che per almeno un paio di ore ti fa dimenticare di essere circondata da idioti che pensano di stare in fila alla posta e che, praticamente, ti vengono in braccio. E la Cascata del Pisciadù è il suo asso nella manica. Altissima e magra, ha una sua eleganza. Sono convinta che sfoderarla sia un colpo sleale da parte sua, ma ammetto che se l’è giocata bene questa Pisciadù.

Poco dopo la cascata inizia il secondo tratto di ferrata, questa volta molto più lungo e in alcuni tratti impegnativo. In un primo momento la progressione è orizzontale su rocce e puntelli. La Val Badia fa bella mostra di sé dalla cresta panoramica. Poi l’esposizione e la pendenza cominciano ad aumentare. Più o meno a questo punto ho raggiunto il massimo di sopportazione possibile e sulla letterina di Babbo Natale ho depennato gli occhiali e ho chiesto a lettere cubitali un bazooka. Ammetto che forse era un po’ esagerata ma vista la situazione… a mali estremi, estremi rimedi no?!

Dopo un piccolo traverso anche il secondo tratto si conclude. Da qui i furbi hanno abbandonato la ferrata in favore del sentiero di sinistra che procede ripido fino al Rifugio Cavazza. Il Signor Coso e io, invece, siamo rimasti in fila tra sconosciuti che stavano per diventare i nostri gemelli siamesi per quanto ci stavano vicino e sassi che scivolavano ogni tanto senza che nessuno si prendesse la briga di urlare un semplice “sasso”, come vorrebbero le regole del vivere civile. Ora vi chiederete voi: perché sei rimasta in fila se stavi sognando di fare un genocidio? No, non è perché sono masochista, ma perché sono testarda e, soprattutto, perché è il terzo tratto della Tridentina quello che vale davvero la pena fare.

L’ultima parte della salita è verticale, costellata di appigli e staffe. In alcuni tratti le rocce si fanno tanto vicine tra di loro da battere i wanna-be gemelli siamesi che mi stavano alle calcagna. Una scaletta ci ha portato all’ultimo masso dove abbiamo dovuto aggirare la Torre Exner per riuscire a vedere quello per cui questo percorso è veramente noto: il ponte sospeso a 2.496mt. Ovviamente io ho sbattuto il casco all’impalcatura del ponte, ma tanto era tutto il giorno che lo sbatacchiavo a destra e manca quindi non è che un colpo in più cambi qualcosa.

Però è sul ponte che è successo veramente l’inaspettato. Appena lo abbiamo passato ci siamo voltati e lì, intento ad attraversarlo, abbiamo visto Babbo Natale. Giuro! In carne e ossa e vestito rosso e barba bianca. Procedeva tutto gioviale con il suo zaino, anche quello rosso, pronto a salutare chiunque. Sapete cosa invece non aveva? Gli occhiali con i tergicristalli e, soprattutto, il bazooka. Quoque tu Babbo Natale?

Superato il colpo al cuore per il tradimento di Babbo Natale, abbiamo percorso il piccolo pezzo attrezzato che segue il ponte e finalmente siamo arrivati alla fine della ferrata. Da lì poi è stato un attimo raggiungere il Rifugio Cavazza (2585mt) in una landa completamente dominata dal Sass de Lec.




Il ritorno attraverso la Val Setus



Il Rifugio è stata la nostra salvezza. Dopo tutte quelle ore appesi alle pareti volevamo solo pranzare. Il Signor Coso ancora si ricorda cosa ha mangiato; il che la dice lunga sull’evento traumatico che è stata la salita. Dice che era una delle migliori paste ai quattro formaggi che abbia mai assaggiato; io sull’argomento non mi esprimo: odio i formaggi e quello che ho ordinato io non me lo ricordo. Comunque se amate quel tipo di pasta sappiate che con solo quattro ore e mezza di fila sulle rocce potete mangiarvene un buon piatto. Ne vale la pena? Ai posteri l’ardua sentenza.

Subito dopo mangiato abbiamo fatto un salto al lago Pisciadù, il lago glaciale che dà vita alla cascata. Ha anche lui il suo fascino. Però non ci siamo fermati troppo a lungo: ci aspettava la discesa.

Abbiamo preso il sentiero 666 per la Val Setus. Rileggete un paio di volte il numero. Noi in quel momento non ci abbiamo fatto caso, ma la dice lunga sulla strada che è. Il sentiero per la Val Setus è la bestia di Satana, senza se e senza ma. È il male fatto sentiero. Comincia con un tratto attrezzato impegnativo soprattutto perché va affrontato in discesa. Noi abbiamo scelto di percorrerlo con ancora tutto l’imbrago, il casco e il set da ferrata addosso, ma alla fine non abbiamo attaccato il dissipatore perché ci avrebbe soltanto ostacolato.

Non è, però, tanto il primo tratto il problema quanto tutto il resto della discesa che consiste in un maledettissimo scivolosissimo zig zag ghiaioso che io ho fatto praticamente per tre quarti con il sedere. Non che il Signor Coso se la sia cavata molto meglio, a essere onesti.

La discesa è particolarmente lunga e alla fine quasi procedevamo a carponi per quanto eravamo stanchi. Arrivati al bivio finale (2200 mt) quasi non ci credevamo. Abbiamo ignorato il sentiero a sinistra per Passo Gardena e deviato a destra, vedendo il parcheggio avvicinarsi sempre più. Non ho mai trovato in vita mia tanto bella la vista di un parcheggio.

Insomma a conti fatti, se questa fosse stata una gara, Tridentina 1 io 0. Ha vinto su tutti i fronti, ma c’è da dire che ha il suo fascino la signorina, specie quando la vedi da valle, di notte, completamente illuminata. Quello è uno spettacolo che auguro a tutti voi, anche a quelli che a fare una via ferrata non andranno mai, di vedere almeno una volta nella vita.


Lago Pisciadù al termine della Ferrata Brigata Tridentina

Scheda della ferrata


PartenzaColfosco (in macchina)
ArrivoColfosco (in macchina)
Difficoltà: EEA 
Durata: 7 ore circa 
Dislivello: 600mt (di cui 400mt in ferrata) 
Sentieri: 666
Rifugi: Rifugio Franco Cavazza

Le fotografie sono state tutte scattate dal Signor Coso. Le riprese video sono state fatte dalla mia tremolante testa con una action camera, il montaggio iniziale è del Signor Coso (io mi sono limitata ad accorciarlo un po'). La musica del video proviene dal sito Bensound ed è copyright free, quindi non ne posseggo i diritti.

venerdì 3 novembre 2017

LA SALITA AL MONTE VIOZ

La volta che ho temuto di essere travolta da una frana (ma non c'era nessuna frana)

Certi monti sono infami. Punto. Bella premessa per un articolo su un’escursione, eh?! Però il fatto è che è vero: ce ne sono alcuni che sono praticamente la trasposizione in monte di Saw l’Enigmista. Si divertono a illuderti di essere arrivata spargendo croci a destra e manca lungo il sentiero e poi non lasciano sulla vetta neanche un pezzetto di croce, niente! E sì, sto parlando di te Monte Vioz, non fare il finto tonto! Ma sapete come si dice no?! Alle ragazze piacciono gli stronzi; e poi se quello in questione è il Vioz… è così bello che gli si perdona tutto!


Vista dalla cima del Monte Vioz

La partenza da Pejo 3000



Il Vioz, un po’ come tutti gli stronzi, in fin dei conti, è una primadonna. Se vai a fare trekking in Val di Pejo non lo puoi non notare e finisci per desiderare a qualsiasi costo anche solo un giorno di sole per tentare la salita. Perché, insomma, quando ricapita di trovare un 3600 che ti lascia arrivare in vetta facendo solo un po’ di hiking senza ghiacciaio né troppa neve? La salita al Vioz è unica! Ed è conseguentemente la mecca della Val di Pejo. Potevo farmela scappare?

Il punto da tener a mente leggendo questa storia però è che per salire al Vioz ci sono due sentieri: quello più turistico da Doss de Cembri e quello decisamente più ostico dalla funivia Pejo 3000. E prima che mi metta a raccontarvi perché sono finita a temere di essere travolta da una frana, fatemelo dire subito: se volete arrivare in vetta al Vioz salite da Doss de Cembri! Consiglio spassionato di una che è salita da Pejo 3000.

Perché l’ho fatto? Per due semplici motivi: per facilitare l’adattarsi del mio corpo al cambio di pressione (quando si arriva a 3000 metri è sempre meglio fermarsi 10 minuti per evitare il mal di montagna) e perché il Signor Coso e io ci siamo fidati di quel che ci hanno detto in albergo a Cogolo. E questo forse è stato un piccolo errore da parte nostra perché il proprietario dell’hotel era uno di quegli alpinisti che si tengono le loro foto in Nepal attaccate alla parete e probabilmente vedendoci partire ogni mattina con lo zaino in spalla da bravi alpinisti deve aver pensato che fossimo più seri di quel che in realtà siamo. Certo non deve aver aiutato il fatto che ormai vede quasi solo gente che va lì in vacanza per le terme di Pejo Fonti. Così avrà detto “finalmente qualcuno che vuol far sul serio!”. Ecco, ai futuri proprietari di albergo dove dormirò: sì voglio fare sul serio, ma non voglio morire, grazie!

Fatto sta che il proprietario-alpinista ci ha consigliato di salire da Pejo 3000 perché secondo lui era un sentiero più divertente e decisamente più fattibile in salita che in discesa. Probabilmente a quel punto una lampadina mi si doveva accendere, ma la me del passato è un po’ tonta. Inoltre, gentilissimo, ci ha anche prestato i bastoni da Nordic Walking perché altrimenti la salita era quasi infattibile… ancora niente lampadine me del passato? Ma che ci provo a fare? Tonta!

C’è un altro piccolo errore che abbiamo fatto, lo dico subito così laviamo tutti i panni sporchi in un colpo solo. L’estate in cui siamo saliti al Vioz era quella in cui il sole aveva deciso di friggere l’intero pianeta. Roba che a Roma facevano quaranta gradi all’ombra e neanche noi a 3000 metri ce la spassavamo proprio: diciamo che il sole ci stava cuocendo alla velocità di una pentola a pressione! E quel bel giovedì, per altro, era il mio primo giorno di ciclo. Qui le donnine lì fuori hanno già capito l’errore, ma facciamo uno schemino per gli omini: primo giorno di ciclo + caldo + fatica + cambio di pressione = brutta, ma veramente brutta idea. L’ho già detto che la me del passato è tonta?

Ora quindi, dopo tutte queste ottime scelte, la mattina presto abbiamo preso da Pejo Fonti la funivia che portava al Rifugio Scoiattolo (2000m) e poi la funivia Pejo 3000 che ci ha portati ai resti dell’ex Rifugio Mantova (2985m). Ci siamo fermati i nostri buoni 10 minuti e scampati per lo meno nausea e mal di testa siamo andati incontro al nostro destino.




Vista del monte Vioz all'arrivo di Pejo 3000

La salita al Vioz



Con l’entusiasmo al massimo abbiamo preso il sentiero 138 che scende per 200 metri in una pietraia costellata di ruscelletti e capre-pecore. Se per caso non avete seguito il consiglio iniziale e siete arrivati anche voi a Pejo 3000 sappiate che da qui, con il sentiero in quota, potete ricollegarvi a quello di Doss de Cembri e salvarvi. Noi, ovviamente, non lo abbiamo fatto. Se no non staremmo qui a parlarne, no?! Noi abbiamo preso la traccia alpinistica che comincia con dei simpatici massi accavallati in precaria posizione perché… o in passato c’è stata una frana o volevano stare vicini vicini. Vedete voi a quale versione preferite credere. A me l’ultima piaceva, se non fosse stato per un crack improvviso che mi ha fatto deviare bruscamente verso l’ipotesi della frana.

Ebbene sì, mentre ero abbarbicata su queste monolitiche pietre un crack ha pensato bene di risuonare nella vallata completamente deserta e io in meno di 10 secondi ho più o meno pensato questo: “Morte! Frana! Morte! Frana! Morte! Frana!”. Non è un gran discorso? Che vi aspettavate il monologo di Amleto in 10 secondi di puro panico? Fatto sta che dopo quei gloriosi 10 secondi non è successo niente; quindi mi sono voltata verso il Signor Coso. Lui era il volto della tranquillità, giuro! Mi ha pure detto qualcosa del tipo “ma che pensavi a una frana? Su, andiamo!”. Al che io mi sono sentita in dovere di rispondergli con uno sfacciato e bugiardissimo “naaaaaaa!”. La verità? Sì che pensavo ci fosse una frana! E pure il Signor Coso lo ha pensato se è per questo! Ma ce lo siamo confessati solo una volta in albergo perché certe cose non le puoi mica ammettere a più di 3000 metri di altezza.

Vista dei massi che aprono la salita al Vioz da Pejo 3000


Comunque dopo i simpatici pietroni le cose non sono andate molto meglio. Seguendo i bastoni segnavia blu, non sempre visibilissimi, siamo arrivati a uno slalom ghiaioso. Ve li ricordate i bastoni da Nordic Walking? Ecco, sono serviti qui perché lo slalom ha una pendenza tale che ancora mi stupisco di non essere scivolata mai; ché scivolare è la mia prima attività quando faccio hiking: scivolo costantemente, ma giuro che sto migliorando.

Alla fine comunque ne siamo usciti e ci siamo ricongiunti con il sentiero 105, quello che sale da Doss de Cembri. È allora che ho pensato per la prima volta che fosse quasi finita. Mi sbagliavo. Abbiamo girato a sinistra e continuato a salire, salire, salire… finché alla fine non abbiamo visto una croce. Allora io ho ripreso entusiasmo nonostante il sudore e il barcollare e ho stretto i denti. No, signori, ve lo dico subito: non era la vetta. La croce indicava il Rifugio Mantova (3535m).

Nonostante il Vioz mi avesse già ingannata abbastanza, quando dopo il Mantova, a pochi metri di distanza sulla linea di cresta, ho visto la seconda croce ci sono ricascata. Sì, è proprio tonta la me del passato! Però ha vissuto minuti di grande felicità mentre avanzava verso quella croce, pure un po’ in mezzo alla neve, e poi se l’abbracciava. Non ho mai amato così tanto una croce! Peccato che non fosse la vetta. Again. Ora una domanda a chiunque abbia fatto la fatica di portare a 3500 metri una gigantesca croce di legno da mettere non in vetta: ma perché? No, davvero, perché?

Comunque alla fine ci siamo arrivati in vetta (3645m). Solo che, siccome il Vioz è decisamente un monte sardonico, sulla vetta non c’è nessuna croce. No, c’è solo un prisma di ferro pure bassotto. Una roba che non si è mai visto. Ma va beh, ognuno ha i suoi gusti e chi sono io per commentare quello che si voleva mettere in testa il Monte Vioz? E allora vada per il prisma. Che poi, vorrei sottolineare, quel prisma al momento sta a segnare il mio personale record!

Quando, però, siamo arrivati lassù io avevo dato fondo a tutto quello che avevo ed eravamo pure in ritardo sulla tabella di marcia quindi non abbiamo attraversato il ghiacciaio e non siamo arrivati al museo più alto delle Alpi, il Museo di Punta Linke, come ci eravamo promessi. Sto ancora rosicando per questo, giuro.


Panorama dalla salita del Monte Vioz da Pejo 3000

Il ritorno a Doss de Cembri

A ridiscendere però siamo stati furbi: abbiamo preso il sentiero 105 che porta alla funivia Doss dei Cembri (2315m). Quindi, ignorando il bivio che ci avrebbe portato per il diabolico tracciato alpinistico, abbiamo tenuto la sinistra percorrendo un sentiero che in situazioni normali avrei trovato faticoso, ma che dopo quella salita mi sembrava una passeggiata. Scendendo per la via di cresta abbiamo superato il Brick (3200m), il punto più critico del sentiero, e abbiamo aggirato il dente del Vioz (2905m).

Discesa dal Monte Vioz per il sentiero di Doss de Cembri


Sorvolando sul fatto che le funi metalliche a volte sfilacciate hanno bucherellato il Signor Coso, la discesa è stata un piacere. Doss de Cembri si è palesato davanti a noi che io ancora saltellavo come una di quelle caprette che avevamo incontrato per strada. Ero euforica. Sarà stato il dopopranzo o che faceva meno caldo alle 6 di pomeriggio o forse alla fine il mio cervello aveva fatto cortocircuito, ma ero al settimo cielo. La causa, però, sarei pronta a scommetterlo, doveva essere proprio il Vioz: 3645 metri di rocce, neve e bellezza nel mezzo dello spettacolo meraviglioso che è il Gruppo dell’Ortles-Cevedale. Come non innamorarsi?

Scheda dell'escursione


PartenzaPejo Fonti (in funivia)
ArrivoPejo Fonti (in funivia)Difficoltà: F 
Durata: 7 ore circa 
Dislivello: 1300m 
Sentieri: 138, 105
Rifugi: Rifugio Scoiattolo, Rifugio Mantova

Le fotografie sono state scattate da me e dal Signor Coso