venerdì 23 febbraio 2018

LA SALITA AL PICCO DI CIRCE. IL PROMONTORIO DEL CIRCEO

LA VOLTA DEL MARE E MONTI E NON PARLO DELLA PASTA (QUESTO NON È MICA UN BLOG CULINARIO, NO?!)

Lo so a cosa state pensando: “il Circeo? Ma questo non era un blog di trekking? Adesso comincia a parlare di mare?”. Eh no, però! Cos’è questa sfiducia? È vero che io non sarò Simone Moro (mio nuovo idolo alpinista da circa un mese per merito del suo libro sul Nanga Parbat) però di escursione voglio parlare. E mica è colpa mia se il Promontorio del Circeo è sul mare! Comunque anche lì hiking si può fare. Non mi credete? Ora ve lo dimostro! 

Vista del mare e delle coste di Sabaudia dal Promontorio del Circeo


L’avvicinamento al Promontorio del Circeo


Prima regola da sapere se partite da Roma per salire il Promontorio del Circeo in un weekend di fine primavera/inizio estate: bisogna partire presto! Ho scoperto l’acqua calda, dite voi? Okay, è vero che quando si va in montagna si parte sempre presto, ma per andare al Circeo si deve percorrere la Pontina, ossia la diretta concorrente a livello mondiale con la Salerno-Reggio Calabria per le file chilometriche. Sì, voi andrete a fare escursionismo, ma gli altri centomila romani andranno al mare; quindi partite all’alba e scegliete il giorno giusto. Noi, per esempio, abbiamo scelto l’ultimo giorno di carriera calcistica di Francesco Totti. Una mossa da geniacci, ve lo assicuro! Per bissarla toccherebbe aspettare la morte di un qualche papa, ma forse neanche così funzionerebbe.

Superato il mostro terribile della Pontina, e sigillato per bene in un anfratto della mente il pensiero che poi toccherà rifarla indietro, si raggiunge Torre Paola dove si parcheggia nei posti a pagamento sul lungomare. In realtà sarebbe possibile raggiungere il Picco di Circe, vetta più alta del Promontorio del Circeo, anche dal belvedere delle Crocette attraverso un sentiero panoramico in cresta. Noi però abbiamo scelto una strada più rapida e diretta quindi non ho la benché minima idea di come sia quella salita.


Vista del Promontorio del Circeo e della torre di Torre Paola dal lungo mare di Torre Paola

La salita al Picco di Circe


Parcheggiata la macchina (e pagato il parcheggio se no questa escursione ci sarebbe costata un occhio della testa) ci siamo avviati lungo il sentiero 3, una stradina sterrata in falsopiano che procede nel bosco dopo un ingresso che potrebbe o non potrebbe essere in qualche modo un muretto. Per essere onesti di questo primo tratto di strada io non conservo memoria e il Signor Coso non ricordava precisamente come fosse questo ingresso per cui ho deciso di immaginare l’ingresso del tesoro di Alì Baba. Così, perché mi è venuto in mente adesso, sul momento e perché – dai! – ci sta. Quindi “apriti Sesamo!” e procediamo.

Dopo circa 10/15 minuti abbiamo incontrato sulla destra il sentiero 1 che sale dritto per dritto, ripido, su un terreno scivoloso come il sapone. Potreste decidere che non fa per voi salire piegati in due, pregando di non finire a quattro di spade per terra, agganciandovi a ogni albero a vostra disposizione come scimmie, ma non vi consiglio di ignorare il sentiero 1 per il sentiero 2 poco più avanti: da lì facciamo che scendiamo perché quello sì che è ripido!

Questo incipit magari non è dei più allettanti: è faticoso e piuttosto lungo, ma vi garantisco che ne vale la pena. Dopo aver affrontato questo primo tratto in verticale si aggira il promontorio a destra iniziando a svicolare tra gli alberi e cominciando, anche, a godersi il panorama mozzafiato che il promontorio offre a qualsiasi pazzo che scende da una macchina sul lungomare con scarponi e zaini da trekking invece che infradito e telo da mare. I punti panoramici, sia sul mare sia sull’entroterra, infatti sono molteplici e valgono tutti un attimo di attesa per goderseli.

In generale il sentiero richiede resistenza fisica, ma non una grande tecnica. Si sta sempre all’interno, ben coperti, anche quando a destra si aprono balconcini a strapiombo. Accettate però un consiglio dalla regina dei goffi: prestate sempre molta attenzione perché il sentiero è quasi sempre stretto tra alberi e rocce.

Dopo un piccolo tratto di mezza arrampicatina tra le rocce (detto tipo il mezzo trenta di Ferrario perché ormai non lo riesco più a dire in altro modo, e se non sapete di cosa sto parlando lo dovreste proprio scoprire qui) si raggiunge finalmente l’anticima, ossia il Picco d’Istria (418m) che più o meno si colloca sopra la torre di Torre Paola che non è visitabile, se ve lo stavate chiedendo. Però è ugualmente carina da guardare da fuori. La torre, dico, non l’anticima… l’anticima solo da fuori la potete vedere altrimenti c’è qualcosa che non va.

Stringendo ancora un po’ i denti, quindi, abbiamo superato il Picco d’Istria e il bivio che ricongiunge il sentiero 1 al sentiero 2 (493m) e scegliendo una delle varie stradine che portano inesorabilmente alla cima abbiamo raggiunto la vetta, il Picco di Circe (541m). Ora voi volete sapere un po’ più chiaramente quale stradina abbiamo preso? Boh! Davvero, non lo so: né io né il Signor Coso ce lo ricordiamo. Comunque tutte portano in vetta quindi poteva andare peggio.

La vetta è stupenda! Da lì si vede tutto il mare: le Isole Pontine, con l’Isola di Ponza, Palmarola, Zannone e poco distante Ventotene, il Golfo di Gaeta (e se è bel tempo persino quello di Napoli) e la spiaggia di Sabaudia. Inoltre in vetta ci sono i resti di un antico tempio dedicato a Circe o a Venere; o almeno così ho letto da qualche parte: io non me lo ricordo per niente, chi lo avrebbe mai detto, eh?! Dicono persino che in epoca romana si organizzassero pellegrinaggi per raggiungere questo tempio. Che fisico questi romani! Che okay che 541m non sono 3000, ma comunque 521m di dislivello si fanno per salire sul Promontorio del Circeo! Quando ancora andavo in chiesa a me non veniva voglia neanche di fare i 10 metri che separavano casa mia dalla parrocchia… ed erano in pianura!

Comunque se ancora non si fosse soddisfatti di tutta la strada fatta, dal Picco di Circe si può continuare verso sud fino a raggiungere una seconda cima. La strada però è lunga e noi abbiamo preferito sederci a terra e pranzare mentre un ragazzino faceva volare un drone e uno sconosciuto ci parlava della Thailandia. Perché? Boh, non me lo ricordo. E come ti sbagli?

Croce dominata dalla scritta "Io sono la via, la verità e la vita" sul Picco d'Istria, anticima del Promontorio del Circeo

La discesa dal Promontorio del Circeo


Per tornare al livello del mare si ridiscende per un primo tratto per la via di andata, ma al bivio tra il sentiero 1 e il sentiero 2 si prende la direttissima, il sentiero 2. Questo sentiero è più interno quindi molto meno panoramico. Procede nel bosco prima a zig zag e poi diritto su un terreno scivoloso almeno quanto quello iniziale della salita. Qui ho brevettato un sistema di discesa elegantissimo e molto efficiente: mi lanciavo verso i tronchi degli alberi schiantandomici contro per frenare la discesa. Potrete non crederci, ma ha funzionato davvero: non sono caduta mai; il che è incredibile. Altrettanto non si può dire del povero Signor Coso che quasi subito è scivolato e si è aperto un bello squarcio sulla caviglia. Il che fa di me la vincitrice della gara abituale tra me e il Signor Coso intitolata “chi farà più ruzzoloni per terra?”. Spoiler: di solito la perdo io.

Per inciso non posso proprio vantarmi di aver vinto questa volta visto che il mio elegantissimo sistema di discesa mi si è rivoltato contro e a un certo punto ho dato una bella testata a un ramo al punto che il lunedì dopo, a lavoro, mi sono trovata a parlare di bernoccoli e a dire al mio capo: “no il bernoccolo non me lo sono fatta sul Circeo. Cioè sì ho dato una testata a un ramo, ma il bernoccolo era già lì”. E il mio capo non mi ha chiesto spiegazioni, il che forse la dice lunga su quanto è abituato a mie risposte strane. Comunque è stata una fortuna: non mi sarebbe piaciuto dover spiegare che il giorno prima del Circeo avevo letteralmente preso un palo in fronte. Cose che ogni tanto capitano nella vita… nel mio caso un paio di volte. Ops!

Dopo essere sopravvissuti al sentiero 2, comunque, abbiamo raggiunto di nuovo il sentiero 3 e voltando a sinistra ci siamo ricongiunti con la strada asfaltata. Raggiunta la macchina, quindi, ci siamo cambiati e tempo dieci minuti eravamo in acqua. Ebbene sì: alla fine abbiamo ceduto anche noi e siamo andati al mare. Vi rivelo un segreto, però: non c’è niente di più bello che farsi un tuffo in mare dopo aver fatto trekking. E io ho paura dell’acqua quindi è proprio vero. Certo c'è stata la piccola eccezione del Signor Coso che, con quello squarcio sulla caviglia, 
era travolto dalle fiamme dell'inferno praticamente tutto il tempo. In generale, però, il corpo si riprende rapidissimamente in acqua, soprattutto i piedi. Non ho ancora capito perché i rifugi non propongono come servizio un bel pediluvio. Diamine! Io lo pagherei anche 10€ dopo aver salito un dislivello di 1000 o 2000 metri, ma anche di 400 a essere onesti. Quindi andiamo rifugi! Rubatevi la mia idea e la prossima estate offritemi un bel pediluvio refrigerante!

Vista dal Promontorio del Circeo del lungomare di Sabaudia con una striscia di terra a dividere mare e lago interno

Scheda dell’escursione:


Partenza: Torre Paola (a piedi)
Arrivo: Torre Paola (a piedi)
Difficoltà: E
Dislivello: 521m
Durata: 4 ore circa
Sentieri: 3, 1, 2 


Tutte le foto sono state scattate da me

venerdì 16 febbraio 2018

L'ASCENSION

IL FILM SULLA SALITA SULL'EVEREST PER AMOUR

Qual è la cosa più folle che voi abbiate mai fatto per far colpo su una ragazza? Scommettiamo che non è pazza quanto quella del protagonista di L’ascension, uno degli ultimi film della scuderia delle produzioni originali Netflix? Vi state chiedendo che c’entra questa cosa con questo blog? Indovinate un po’! 
(Attenzione: spoiler warning! In questo post sono peggio di Caparezza in Kevin Spacey)

Fonte: france.tv; tutti i diritti di copyright appartengono alle case di produzione e a chiunque altro abbia la paternità di questa foto

La storia di L’ascension


Supponiamo che voi abbiate 26 anni, abitiate in un dipartimento povero di Parigi, siate disoccupati come la maggior parte delle persone che conoscete e siate cotti di una vostra amica di infanzia. Supponiamo ancora che questa amica, per comodità chiamiamola Nadia, con voi non ci stia perché vuole qualcuno che gli dia stabilità e affidabilità. Cosa fareste per convincerla che siete la persona giusta per lei? Vi trovereste un lavoro, visto che è quello che lei si aspetta da voi? La invitereste a cena fuori praticamente ogni giorno fino a farvi denunciare per stalking? Scalereste l’Everest? No, perché è esattamente quello che fa Samy, il franco-senegalese protagonista di L’ascension.

Samy è uno che non ha mai visto una montagna neanche in cartolina. Uno che crede che farsi le scale del suo palazzo tutti i giorni per un mese possa essere un buon allenamento per tentare l’Everest (cosa che non funzionerebbe neanche se il suo palazzo fosse il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo stando a Wikipedia). Uno che pensa che la montagna più alta del mondo sia intorno ai 1000 metri (se ne è persi giusto 7848, ma che vuoi che sia!). Samy è uno a cui la parola montagna non dovrebbe neanche passare per la testa quando si chiede cosa fare per sembrare un tipo serio e affidabile eppure è esattamente quello che decide: “scalo l’Everest per conquistare la mia Dulcinea!”. Cioè a confronto Don Chisciotte è la persona più sana dell’universo! E io ancora mi sto chiedendo perché non ha detto “vado sulla luna” che tanto con la Virgin Galactic bastava una telefonata. Tanto inesperto per inesperto cosa cambia tra la luna e l’Himalaya?

Fatto sta che questo folle trova pure degli sponsor, si prepara il suo bel zainettone e se ne parte per il Nepal dove ci mettono circa due secondi per capire che sì, ha mentito quando sul curriculum ha scritto che aveva scalato il Monte Bianco e il Kilimangiaro. Voi vi sentivate in colpa per aver scritto sul cv che il vostro inglese era livello B2 invece che B1 eh?! Beh! C’è chi vi ha battuto alla grande.

Fatto sta che alla fine impara pure a scalare e tutto per merito di un harmony. Cosa incredibile perché credo che gli harmony non siano mai tornati utili a nessuno. Forse per fermare un tavolo traballante, ma certo non per scalare un 8000. E invece a Samy torna utile davvero perché il suo portatore decide di insegnargli a scalare solo a patto che lui gli legga l’harmony che sua madre gli aveva ficcato nel suddetto zainettone (attrezzatura necessarissima sull’Everest un harmony eh?!). E quindi niente: dopo essere stato dato un po’ per disperso (la prossima volta che va a fare due passi sull’Himalaya forse gli conviene portarsi un satellitare e non un cellulare normale), miracolosamente, alla fine Samy arriva in vetta e torna pure giù, tutto intero. E sì, alla fine conquista pure la sua Dulcinea. Ma io dico, Nadia, ma tu non volevi un tipo affidabile e serio? Da quando in qua tentare un 8000 senza alcuna esperienza è segno di stabilità? Ma va beh! L’amour, c’est toujours l’amour…



La storia vera dietro L’ascension


Quello che lascia di stucco di L’ascension è che è tratto da una storia vera. Non capita tutti i giorni di vedere una commedia leggera su di un inesperto che se ne va sull’Everest e scoprire che in qualche modo è successo davvero. Lo so, in realtà, che il signor Nadir Dendoune, giornalista e attivista per i diritti umani franco-algerino nonché versione reale di Samy, non è neppure l’unico inesperto che ha tentato una cosa del genere. C’è persino un’industria turistica che campa su ricconi principianti che smaniano per arrivare sul tetto del mondo. Ma di solito non va tutto così liscio perché anche se l’Everest non è il K2 o il Nanga Parbat (che decisamente sono più assassini) resta comunque un cimitero a cielo aperto. Quindi è facile che un film che parli della vetta più alta del mondo sia più una tragedia che una commedia, come ad esempio il film Everest, ma di questo parliamo un’altra volta.

Invece Nadir è riuscito ad arrivare in vetta, diventando il primo franco-algerino a conquistare la vetta più alta del mondo, e a tornare a casa intonso. Un piccolo miracolo. Ma questo folle, che ha raccontato la sua esperienza nel libro “Un tocard sur le toit du monde”, non lo ha fatto per amore di Nadia, ma per amore di sua madre. Ora perché abbia sentito il bisogno di andarsene sul tetto del mondo per dimostrare alla mamma quanto gli vuol bene per me resta comunque un mistero: alla mia mamma è sempre bastato molto meno, tipo che io facessi quattro passi e quattro chiacchiere con lei. Ma tant’è: ognuno dimostra l’amore a modo suo. Che poi se io provassi a fare una cosa del genere mia madre mi ammazzerebbe: ha paura pure quando vado su un 3000.


Fonte: Il sito francese della Coca Cola; credits di Nadir Dendoune, anche soggetto della fotografia

Qualche nota a margine di L’Ascension


Il film di per sé è carino: una commedia romantica leggera e senza troppe pretese. Il prurito che però sentivo già dal trailer non è passato guardando il film. Il punto è questo: andare sull’Everest non è una passeggiata! Non fraintendetemi: sono contenta che Dendoune sia tornato sano e salvo, ma è un’eccezione non la regola e il film non lo racconta abbastanza chiaramente. E soprattutto ci sono un paio di cose che davvero mi sono rimaste di traverso quindi… posso fare la rompi scatole? Ecco qui i miei sassolini nella scarpa:
  • la menzogna sul Monte Bianco e sul Kilimangiaro è vera. Sia Samy che Nadir la incidono chiaramente sul loro curriculum. Se durante la visione del film diventa praticamente comica come situazione (lo ammetto: ho riso anche io mentre Samy si arrampicava sugli specchi parlando delle sue due “spedizioni”) nella realtà è qualcosa di terribilmente grave. Una menzogna di questo tipo poteva mettere a repentaglio sia la vita di Samy/Nadir che quella degli altri componenti della spedizione. Non mi capacito di come Dendoune non abbia capito i rischi a cui esponeva tutti mentendo in quel modo; 
  • la decisione di Samy di continuare fino alla vetta anche quando il portatore gli ordina di tornare indietro per il troppo poco ossigeno rimasto è avventata, irrazionale e giustificabile soltanto dalla poca esperienza. Una scelta di questo tipo è decisamente rischiosa e avrei preferito che nel film fosse stato sottolineato di più come sia stato solo un colpo di fortuna che tutto sia andato bene e che quella decisione certo non è un buon esempio
  • la rappresentazione dell’arrivo in vetta come se fosse il punto finale dove tutti possono tirare un sospiro di sollievo e gioire è scorretta. L’arrivo in vetta non è il finale, ma solo la metà della strada. Per questo avrei preferito vedere anche qualche scena della discesa e invece niente. Peccato! Forse il prurito mi sarebbe passato un po’ a quel punto. 
Comunque se metto da parte tutti i miei sassolini ripeto: il film non è male. Peccato solo che dopo averlo visto le mie aspettative sul fare colpo su una donna si sono un po’ alzate. A questo punto il prossimo che ci vuole provare con me come minimo deve andarsi a fare due passi su Marte con una Tesla. Tanto ormai si può fare pure quello più o meno, no?! Non mi sembra di chiedere tanto!

Fonte e credits: Rupert Taylor-Price; immagine dell'Everest dal Campo base

Scheda del film:


Sceneggiatore: Olivier Ducray, Ludovic Bernard, Nadir Dendoune 
Regista: Ludovic Bernard
Produttore: De L’Autre Côté du Périph’, France 2 Cinéma, Mars Films, Auvergne Rhône-Alpes Cinéma
Durata: 103 minuti
Anno di uscita: 2017

venerdì 9 febbraio 2018

LA SALITA AL MONTE CAMICIA

LA VOLTA CHE… SIAMO ONESTI: CI SIAMO ANDATI SOLO PER GLI ARROSTICINI!

Capita a tutti di avere un acerrimo nemico. Persino il Signor Coso che, per quanto è gentile e alla mano, è quasi un gigantesco orsacchiotto pacioccoso (tipo Bear, l’orso che canta alla luna in quel programma per bambini, per intenderci) ha un acerrimo nemico. Quindi cosa c’è da stupirsi se ne ho uno io? Il mio si chiama Monte Camicia.



Vista del Monte Camicia e della sua cresta dal Monte Tremoggia


L’avvicinamento al Monte Camicia


Prima cosa importante: l’ostilità nei miei confronti da parte del Camicia è certa e conclamata. Due volte ho fatto un’escursione per raggiungere la sua cima e due volte lui mi ha fatto a pezzi e rosolato neanche fossi un tacchino ripieno. 

Della prima escursione, però, ricordo poco e niente. Giusto il caldo che faceva e la faticaccia di arrivare in vetta. Quindi vi racconto la seconda volta. Premessa necessaria, questa, perché altrimenti non si capisce come d’un tratto sembri l’alpinista migliore del gruppo, seconda solo al Signor Coso che quel giorno, non si sa perché, si credeva il dio Mercurio per come correva in su e in giù per il monte. E invece no: sono sempre lo stesso Gollum zoppettante di sempre, solo che aver già affrontato un’escursione influisce moltissimo sulla resa complessiva della seconda volta.

L’avvicinamento per il Monte Camicia è piuttosto lineare. Se come noi arrivate da Roma basta prendere l’uscita dell’autostrada a24 Assergi e procedere per Campo Imperatore. Superati gli impianti di risalita si continua dritti. Al bivio che permette di raggiungere realmente Campo Imperatore, si gira a sinistra e si procede in direzione Castel del Monte. Su questa via, caratterizzata sia dalla vista meravigliosa dell’altopiano circostante, che non a caso è chiamato simpaticamente il Piccolo Tibet, che dalle buche-voragini che fanno invidia a quelle di Roma (ed è tutto dire), si raggiunge e si supera il meraviglioso “arrosticinaro” Mucciante importantissimo per questa escursione.

Si prende quindi a sinistra fino a raggiungere Fonte Vetica dove si trova una fontanella, un rifugio e, soprattutto, il parcheggio, perché è da qui che comincia la salita alla vetta più orientale del massiccio del Gran Sasso.



Panorama sulla piana erbosa circostante durante la salita verso la cima del Monte Camicia


La salita al Monte Camicia


Per salire sul Monte Camicia da Fonte Vetica ci sono due possibili vie. Entrambe le volte noi abbiamo scelto di salire da quella meno scoscesa e riscendere da quella più pendente: ci è sembrato il modo migliore di affrontare questo dislivello di circa 1000 metri.

Abbiamo quindi preso, guardando la fontana, il sentiero a destra. Questa via si snoda inizialmente in una pineta di mastodontici abeti e fin da subito presenta un’elevata pendenza. Per fortuna in alcuni punti più ostici è gradonata altrimenti sarei morta già dopo i primi due passi, e con me i due amici che ci accompagnavano. Una dei due, per altro, era Wini che forse ricorderete per essere stata la burattinaia di se stessa nel giro di Rocca Calascio e che, per sua sventura, si è trovata a faticare molto più del previsto anche sul Camicia.
Per fortuna il tratto nel bosco termina velocemente e appena si esce dalla vallata ombreggiata si gira a destra percorrendo un pianoro erboso da cui si può osservare tutta la piana di Campo Imperatore. Il Camicia è un monte faticoso, ma offre in cambio splendide vedute. Proseguendo ancora lungo la salita, infatti, si riesce persino a vedere il mare. A quel punto si è raggiunta la Sella di Fonte Fredda (1994m), che ha un nome bugiardo: di freddo sul Camicia nei mesi estivi/autunnali non c’è nulla!

La sella non è neanche a metà strada. Si deve continuare a salire lungo la cresta che in poco tempo porta prima all’anticima del Monte Tremoggia (2231m) e poi alla vera e propria vetta del Monte Tremoggia (2350m). Se vi state chiedendo “e mo da dove spunta sto Monte Tremoggia e a che serve?” la risposta è semplice: a infrangere i sogni degli escursionisti poco allenati e per niente esperti che vedendo la croce credono per un solo istante di essere arrivati in cima al Camicia. Ingenui!

Il Tremoggia è più o meno a metà strada e se come noi vi state portando dietro un amico che, non si sa bene perché, ha pensato di venire in montagna in jeans, sneakers ed eastpak, per non parlare di un problema alla schiena che lo sta lentamente assassinando, potrebbe essere una buona idea fermarsi qui a mangiare qualcosa e recuperare le forze. Noi ci abbiamo pranzato, mostrando bellamente a chiunque passasse di lì la nostra famelica voracità da lupi, neanche fossimo rimasti a digiuno per mesi!

Nel mentre ci stavamo spazzolando via un paio di panini a testa, il nostro amico mal equipaggiato, che forse non aveva ben chiaro cosa significasse fare trekking, ha mostrato però di avere una vista da elfo individuando nell’erba delle chiavi della macchina perse da chissà chi, chissà quando. Se devo immaginare qualcosa che non vorrei mi capitasse mentre sto facendo un’escursione a chilometri da casa (oltre ovviamente al farmi male) ecco quello è perdere le chiavi della macchina, subito seguito dal lasciare le luci accese… ma questo credo che sia un piccolo trauma dovuto al coccolone che mi sono presa dopo la Ferrata degli Artisti. Mossi da un’empatia immediata per i poveretti a cui era capitato abbiamo cercato per tutto il sentiero a chi appartenessero, ma niente! Così è la vita, immagino.

Dal Tremoggia si riscende alla Sella Tremoggia (2331m) e si continua per la cresta fino a raggiungere una conca nella quale si cammina all’interno della linea di cresta. Qui salendo qualche metro e sporgendosi un po’ si possono osservare le pareti del Camicia che precipitano a strapiombo per circa 1200m nel versante teramano. Uno spettacolo veramente suggestivo, lo ammetto! Vale la pena sopportare l’antipatia del Camicia solo per vederlo.

La via nella conca prosegue fino a una selletta con vista sul Corno Grande. Qui il nostro amico mal equipaggiato ha sentenziato che non gli interessava più così tanto arrivare in cima e che lo attirava molto di più tutta quella bella erbetta morbida. Così si è buttato a terra e tempo pochi minuti stava già dormendo. Il Signor Coso, Wini e io, invece, abbiamo proseguito a sinistra lungo un sentiero ghiaioso, sdrucciolevole e molto pendente che in circa 15 minuti ci ha portato in vetta.

La vetta del Monte Camicia (2564m) è piccola e presenta solo una croce abbarbicata nel poco spazio disponibile. Siccome è una meta molto ambita e quindi sempre affollata il nostro tempo di permanenza lassù è stato minimo. Siamo giusto riusciti a farci un paio di foto e a goderci un po’ di aria fredda, perché sì: il Camicia è un forno crematorio per tutta la salita e la discesa ma in vetta diventa una cella frigorifera. Che simpaticone!
 

Vista della cresta del Monte Camicia dalla vetta del Monte Camicia


Il ritorno dal Monte Camicia e l’arrosticinaro


Se si desidera dalla cima è possibile imboccare il Sentiero del Centenario, noi invece siamo tornati sui nostri passi stando attenti a non ruzzolare troppo nel ghiaione che ci riportava là dove il nostro amico stava ancora bellamente sonnecchiando.

Qualche minuto dopo ce ne stavamo tutti buttati sull’erba a chiacchierare e divorare qualsiasi forma di cibo ci fosse rimasta. Il Signor Coso, in particolare, era munito di una bustina di mirtilli secchi ben sigillata che con fare ingegneristico stava aprendo attentamente millimetro dopo millimetro con un coltellino svizzero. Il taglio aveva una precisione chirurgica al punto che persino uno sconosciuto poco distante, a nostra insaputa, stava osservando il suo lavoro. A un certo punto, però, il Signor Coso ha pensato di poter allargare il taglio con le dita. Così ha fatto lievemente pressione e… i mirtilli sono completamente esplosi ovunque. Nello straccio che restava della bustina erano rimasti intrappolati sì e no cinque mirtilli. Non ho mai sentito nessuno ridere tanto di gusto come quello sconosciuto alle nostre spalle. Dio quanto lo ha divertito quella scena! E comunque addio mirtilli per noi.

Dopo aver tentato di dare nuova flora al Camicia (se lassù trovate dei cespugli di mirtillo è tutto merito nostro) abbiamo ripreso la via di casa e, arrivati alla conca dalle pareti strapiombanti, invece di proseguire per il Monte Tremoggia siamo scesi verso valle dal sentiero a destra che fiancheggia il vallone di Vradda.

Da qui si scende prima fra le rocce e poi nel bosco in un via vai di curve che non permette mai di avere un’idea chiara di quanto manchi all’arrivo. Così io, consapevole che mancava sempre troppo, ho preso l’abitudine di mentire a Wini e al nostro amico che a quel punto erano sfiniti, doloranti e avevano sviluppato un odio forse persino maggiore del mio per il Camicia. Wini soprattutto, che era alla sua prima volta sul Camicia ma era già stata sul monte accanto, il Prena, dove avevamo incontrato il gelo artico a giugno, era diventata praticamente un unico lamentio. La si può capire, però: si aspettava il freddo o per lo meno il fresco e si era ritrovata a prendere fuoco neanche fossimo nel Sahara!

Comunque arrivati a Fonte Vetica il buon umore è tornato a tutti perché poco distante da lì, a neanche cinque minuti di macchina, c’era Mucciante. Ve lo avevo detto che era importante per questa escursione. Questa macelleria vende a prezzi irrisori ottimi arrosticini di pecora che poi il cliente stesso si cucina sulle braci lì fuori. Per fortuna io ho trovato persino un gentilissimo signore abruzzese che si è messo a girarmi gli arrosticini. Cielo se ci sapeva fare!

Comunque alla faccia dei mirtilli secchi fuggiaschi: un po’ di arrosticini e sto apposto. E siamo onesti poi: sul Monte Camicia vale la pena andarci solo perché poi c’è Mucciante!



Vista della conca all'interno della linea di cresta dalla cresta che porta al Monte Camicia


Scheda dell’escursione:


Partenza: Fonte Vetica (a piedi)
Arrivo: Fonte Vetica (a piedi)
Difficoltà: E
Dislivello: 1000mt
Durata: 8 ore circa

Tutte le foto sono del Signor Coso

venerdì 2 febbraio 2018

LA SALITA AL PIZ BOÈ

LA VOLTA CHE MI SONO CADUTI GLI OCCHIALI NUOVI, MA PER FORTUNA NON HANNO COLPITO IN TESTA NESSUN CORVO
Lo ammetto: siamo stati un po’ pigri per la salita al Pordoi che vi ho raccontato qui, e questo non ci fa onore. Ma in nostra difesa posso dire che alla fine abbiamo sfruttato le energie risparmiate grazie agli impianti per salire sul Piz Boè. Dai! Non siamo alpinisti così vergognosi (solo un po’).


La via che dal Rifugio Forcella Pordoi porta al Rifugio Boè

Dal Rifugio Forcella Pordoi al Rifugio Boè



Il Piz Boè è la cima più alta del Gruppo del Sella e, per altro, è uno dei tremila più facili da salire in zona. Io ero alle prime esperienze di alpinismo quindi ero decisamente inesperta, ma ero anche totalmente esaltata ed entusiasta. E quando io sono entusiasta si vede lontano un miglio. Divento tipo Taz il diavolo della Tasmania solo più allegra. Quindi all’idea che ci fosse un tremila che potevo raggiungere senza correre troppo il rischio di fare un salto nel vuoto di testa non voluto non stavo nella pelle. 

Altro lato decisamente positivo del Piz Boè è che raggiungerlo dal Rifugio Forcella Pordoi, dove noi eravamo, significa prendere una strada già tracciata, unica, obbligata, non confondibile, senza svolte improvvise. E quando hai il senso dell’orientamento di Topo Gigio come me essere certa di non perderti per strada è bel pro. Poi, certo, c’è da dire che io non vado in montagna con il Signor Coso solo perché è simpatico e disposto a portare anche due borracce d’acqua nel deserto dell’Appennino, ma perché tra le altre cose lui si sa orientare quindi forse non ci saremmo persi anche se ci fossero state svolte, ma tant’è.

Salutate le nostre amiche, che avevano deciso che un tremila non era nei loro gusti, e il maialino domestico del rifugio, abbiamo imboccato il sentiero n. 627 che si dipana in una lunga vallata di rocce. Il percorso di per sé è decisamente lungo e dopo un po’ che si cammina in quel paesaggio grigio quasi ci si dimentica che esistono altri colori. In questa petraia continua in cui si procede ci si trova a sinistra la valle Lasties e a destra il Passo Pordoi.

Nonostante il percorso dal Rifugio Forcella Pordoi sia probabilmente il più facile per raggiungere il Piz Boè quel giorno non c’erano molte persone che lo percorrevano con noi. Per altro, poi, quelle poche che c’erano ce le siamo perse al bivio che permetteva di scegliere se salire direttamente al Piz Boè o dirigersi prima al Rifugio Boè. No, non crediate che sia la stessa cosa. Io lo credevo: pensavo “il rifugio si chiama Boè, la cima si chiama Boè, quindi il rifugio è sulla cima”. Un sillogismo perfetto a mio parere, Hegel sarebbe stato fiero di me. Peccato che Hegel e io non siamo mai andati d’accordo; e infatti mi sbagliavo. Il Rifugio Boè non è sul Piz Boè. E mentre tutti sceglievano di salire sul Piz Boè noi abbiamo scelto il sentiero in quota per raggiungere il Rifugio Boè.

In un percorso tra rocce e sassaiole, a tratti su assi di legno, abbiamo raggiunto dopo una lunga camminata il Rifugio Boè (2873mt) dove ci siamo fermati a mangiare. Qui c’era decisamente più gente di quanto avremmo potuto supporre dal sentiero quasi deserto che avevamo fatto fino a quel momento, dato che al rifugio si può arrivare tramite altre strade tra cui quella dalla Valle di Mesdì e quella dal Rifugio Cavazza, ossia dalla Ferrata Tridentina.

Dopo pranzo io ho fatto un salto in bagno e voi direte “e che ce ne frega?”. Ce ne frega perché è un’informazione importante di questa escursione. Al Rifugio Boè, come in molti rifugi dolomitici, c’è il bagno alla turca e io, per mie esperienze personali, credevo di poterlo affrontare facilmente e invece per poco non cadevo dentro il buco. Ma io dico: un maniglione per tenersi o una postazione per i piedi un po’ più comoda no? Comunque sono uscita da lì pensando “questo è il bagno peggiore del mondo!”. Tenete a mente questa affermazione, ci tornerà utile più tardi.

Il panorama dal Rifugio Boè ai piedi del Piz Boè

La salita al Piz Boè e il ritorno a Canazei



Per salire al Piz Boè dal Rifugio Boè si prende il sentiero n. 638 e in circa 45 minuti si è in vetta. In realtà questo sentiero è percorso per lo più in discesa, ma non so quanto sia conveniente. Il sentiero è uno zig zag tra sassetti, molto pendente e scivoloso. In salita, però, diventa maggiormente fastidioso nella pinnata finale perché si viene a creare una situazione di senso unico: chi scende continua dritto per il canale, mentre chi come noi sale è costretto a una svolta verso destra. Questo tratto è decisamente esposto (tipo che le persone sotto sembravano omini della Lego) e un po’ più ostico, ma un corrimano e una breve scaletta di un paio di pioli permettono di superare questo stretto sentierino senza fare una intima conoscenza dello strapiombo.

L’ultimo tratto di salita è costituito da un sentierino gradinato in cresta e alla fine si arriva in cima dove si trova il Rifugio Capanna Fassa (3152mt). Qui sono andata a caccia di un krapfen o di qualsiasi cosa gustosa che potesse tenere a bada la mia costante fame incontenibile. Mi spiace dirlo, ma la Capanna Fassa ha deluso: non c’era assolutamente nulla da mangiare. Che colpo al cuore!

Ciò che invece c’era in cima era quello che con forse un po’ di ironia veniva chiamato “wc alpinistico”. Era tipo una baracca di legno abbarbicata su una roccia esposta e sembrava promettere di scaricare qualsiasi rifiuto nel vuoto, allo stile medioevale per capirci. Ora se lo facesse davvero io non lo so, non ho avuto il cuore di provare, ma posso dire una cosa con certezza: vi ricordate il bagno turco di prima? Ecco! Non era il bagno peggiore del mondo! E con buona pace del meraviglioso Renton di Trainspotting credo di poter anche dire che il peggior bagno del mondo non è in Scozia.

Se vi serve un motivo per affaticarvi un po’ ed arrivare in cima al Piz Boè, oltre al fatto che è un tremila e che la vista da lì è stupenda, è che non vi troverete spesso ad essere sopra ai nidi dei corvi. E ve lo possiamo assicurare sia io sia i miei Ray Ban, all’epoca nuovi, che a un certo punto hanno pensato bene di tuffarsi dalla mia faccia e schiantarsi su una roccia invece che sulla testa di un povero corvetto. Non temete: nessun corvo è stato maltrattato durante il volo dei miei Ray Ban e gli occhiali hanno riportato solo un piccolo graffietto quasi invisibile.

I corvi che nidificano poco sotto la vetta del Piz Boè

Per il ritorno a valle abbiamo intrapreso l’altro versante, quello che avevamo ignorato al bivio iniziale. La discesa, in alcuni tratti, può essere leggermente ardua soprattutto per gli inesperti ma l’assistenza della corda di metallo in questi passi rende fattibile il procedere senza troppe difficoltà. Poi io avanzavo sempre molto arrancante, ma sulla base di due bambini-stambecchi che mi hanno superato facendomi mangiare la polvere direi che la discesa non è così ostica come può sembrare (ma non consiglio comunque di farla di corsa e senza fare attenzione come facevano loro).

Raggiunto il bivio iniziale si ripercorre la strada dell’andata. Spingi sul rewind e di nuovo: Forcella Pordoi, Rifugio Maria, funivia, Passo Pordoi, Col de Rossi, Canazei, autobus, Campitello. Che detti così sembra velocissimo e invece il suo tempo lo richiede.

Così in un giorno solo ci siamo visti Pordoi e Piz Boè e anche se all’inizio sembravamo pigri Peter Griffin che andavano in montagna, alla fine un po’ di fatica l’abbiamo spesa anche noi e una vetta ce la siamo guadagnata. Quindi dio dell’alpinismo, per favore, non fulminarmi per l’onta che ti fatto prendendo tutti quegli impianti! Grazie. 


Panorama della vetta del Piz Boè dove trionfa il Rifugio Capanna Fassa

Scheda dell’escursione:



Partenza: Rifugio Forcella Pordoi (a piedi)
Arrivo: Canazei (funivia)
Difficoltà: EE
Sentieri: 627, 638
Rifugi: Rifugio Forcella Pordoi, Rifugio Boè, Rifugio Capanna Fassa

Tutte le foto sono del Signor Coso (a parte la prima che ho scattato io)