Sono stata sconfitta! È ufficiale. Sono traumatizza, completamente a pezzi, con la dignità in frantumi. Ebbene sì: un’escursione mi ha devastata. Ma non un sentiero alpinistico qualunque, ma la salita alle Torri di Casanova, ossia l’estrema propaggine occidentale della dorsale del Monte Prena. E visto che a conti fatti è stato il Prena, il mio monte appenninico preferito, a farmi questo, sono mortalmente ferita nei sentimenti. Quindi quest’escursione provo a raccontarvela dal punto di vista del Signor Coso perché dal mio sarebbe solo un “tu quoque Prena, filii mi? Pecché? Pecchééé?” (prego, usare tono iperacuto e terribilmente melodrammatico quando lo leggete).
La partenza da Piano di Pietranzoni
In principio era il buon umore. La salita alle Torri di Casanova prevede una breve ferrata che sulla carta non sarebbe dovuta essere troppo difficile. Ora, noi avevamo già fatto una ferrata in Liguria (la Ferrata degli Artisti) e tre in Trentino (vi suonano familiari la ferrata del Piccolo Cir, la Tridentina e la ferrata del Col Rodella), ma in Abruzzo non ne avevamo ancora fatta nessuna; quindi eravamo in brodo di giuggiole all’idea.
Così, armati di entusiasmo, buon umore e attrezzatura, siamo partiti di buon’ora da Roma e verso le otto eravamo poco oltre il bivio tra Campo Imperatore e Castel del Monte, là dove si lascia la macchina in uno slargo sulla destra in corrispondenza con dei cartelli informativi. E davanti a noi, d’un solo tratto, si dipanava l’infinito mare verde di Piano di Pietranzoni (1660m).
Se credete che l’oceano sia spaesante provate ad andare al Piano di Pietranzoni: qui sì che la labirintite fa festa. In questa immensità erbosa non si vedeva lo straccio di un sentiero nonostante mappa e GPS (sì lo stesso GPS ubriaco del Monte di Cambio) giurassero che il sentiero n. 230A fosse proprio lì davanti a noi. E allora via a camminare a caso in mezzo all’erba. E mentre io ancora ero tutta gioviale e saltellavo in giro manco fossi Heidi con l’agnellino, il Signor Coso cominciava a farsi venire qualche dubbio su quello che stavamo facendo: ma non era per caso che ci stavamo già perdendo? E magari avesse continuato ad averlo quel dubbio! E invece no: a un certo punto siamo finiti in un ampio ghiaione che in poco tempo ci ha condotto fino a un canalone con tanto di fiume-scolo del ghiacciaio che ci scorreva dentro e zac! Il giusto presentimento era svanito dalla mente del Signor Coso. E quindi niente: avremmo potuto salvarci e invece siamo andati verso la nostra fine. Povera mente a cui nessuno crede! Da oggi in poi temo che si sia giustamente e tristemente guadagnata il nome di Cassandra.
La salita alle Torri di Casanova per la via CAI Penne
Per comprendere l’altalena bipolare a cui il Signor Coso è stato sottoposto durante la salita delle Torri di Casanova (io invece ho semplicemente preso la china di una depressione nera) bisogna che sappiate che noi pensavamo di star per salire dalla via Familiari che sul web viene definita “divertente ma non difficilissima”, “il limite estremo di ciò che è percorribile con i bambini”. Invece, in realtà, quella che stavamo per intraprendere era la via CAI Penne che sul web è descritta come un susseguirsi di canaloni che col cattivo tempo si possono facilmente tramutare in “trappole mortali”. Non sto scherzando: c’è scritto letteralmente “trappole mortali” su alcuni siti…
Il primo di questi canaloni è quello del fiume-scolo che prevede anche alcuni tratti di arrampicata su piccoli massi e paretine di un paio di metri. Il che, ovviamente, rende tutto molto avventuroso e a suo modo fico. Motivo per cui Cassandra in quel momento era più entusiasta di un tifoso del Celtic mentre canta You’ll never walk alone. Era tipo impazzita e in effetti il Signor Coso aveva un bel sorriso stampato sul viso.
Più si sale di quota, però, più questi benedetti canaloni diventano difficili. In sostanza la via CAI Penne è un incrocio tra i gironi dell’inferno e i livelli di Super Mario. Nel nostro caso il primo mostro era un blocco di neve che se ne stava bello spaparanzato su tutto il canalone e ci si frapponeva davanti stile muretto gandalfiano “tu non puoi passare”. Probabilmente il blocco era anche un gentile signor blocco di neve che ci voleva solo proteggere da quello che veniva dopo, ma noi non lo abbiamo capito e invece di essere grati lo abbiamo preso a calci finché non siamo riusciti a scavarci un gradino per poterlo scavalcare. A questo punto Cassandra stava già fuori di sé per l’entusiasmo avventuroso con una bottiglia di champagne in una mano e il microfono del karaoke nell’altra per cantare tutto il repertorio degli Oasis (sì, a Cassandra piacciono gli Oasis, nessuno è perfetto).
Dopo questo primo ostacolo, che per il Signor Coso è stato più divertente che pericoloso (mentre io già redigevo mentalmente il mio testamento), la neve è stata una compagna presente, ma non costante che ci ha costretto a giochi di equilibrismo che hanno avuto l’unico effetto di fomentare ulteriormente la già esaltata Cassandra. In ogni caso, comunque, la presenza continua di segnavia (e la totale assenza di possibili svolte) rassicuravano alquanto sulla direzione che avevamo preso e non ci facevano per niente supporre che in realtà fossimo sulla strada sbagliata. Il dubbio c’è venuto quando a un certo punto siamo arrivati in uno slargo e ci siamo trovati di fronte segnavia in ogni dove.
Avete presente quelle classiche scene delle tre porte identiche davanti a voi e voi ne dovete scegliere una? Ecco, noi avevamo tre segnavia e ne dovevamo scegliere uno. Il primo ad arrivare e scegliere è stato l’Amico Esperto che, col suo istinto da alpinista navigato, ha imboccato un canaletto che in poco tempo si è trasformato in una morsa assassina dove si è quasi incastrato. Nel frattempo, però, era arrivato il Signor Coso che, vedendo l’amico in un vicolo cieco, ha imboccato sicuro la strada a destra seguendo una grossa freccia rossa. La sicurezza è andata a farsi friggere velocemente però, perché da che prima saliva bello dritto si è rapidamente trovato, senza neanche accorgersene subito, prima a quattro zampe e poi attaccato a una parete verticale con la stessa difficoltà a tornare giù dell’Amico Esperto. È qui che Cassandra ha ricominciato ad avere qualche dubbio su quel che stavamo facendo. E chi le può dar torto? L’unica rimasta libera di muoversi e di controllare l’ultima via ero io. Al posto suo anche io mi sarei preoccupata un po’. In realtà la via a sinistra era un sentiero tranquillissimo, ma che procedeva in chiara discesa e che quindi non ci avrebbe mai portato in vetta: era un altro buco nell’acqua.
E così stavamo lì, in questo slargo, con me seduta sulle rocce finalmente a recuperare fiato dopo la scarpinata faticosa di poco prima, l’Amico Esperto impegnato in una lenta e faticosa ritirata, il Signor Coso culo a terra per tornare giù senza precipitare e Cassandra decisamente meno entusiasta di poco prima. È a quel punto che tre abruzzesi sono comparsi da un punto ignoto e ci hanno rivelato che no, quel sentiero infuoca-polpacci non era la via Familiari, ma la via CAI Penne, di cui noi ignoravamo totalmente l’esistenza, e che per altro stavamo percorrendo l’anello delle Torri di Casanova al contrario: salivamo dalla discesa e saremmo scesi dalla salita. Ora, gentili signori abruzzesi, io quel malefico sentiero l’ho fatto in salita e mi chiedo: ma come vi viene in mente che il verso giusto sia in discesa? Ma l’avete notata la roccia franosa e friabile che vi circonda e su cui camminate? Diamine! A calcetto saponato si scivola di meno!
Ad ogni modo i tre abruzzesi, decisamente più esperti e più attrezzati di noi, sono stati così cortesi da improvvisarsi in un sol colpo re magi e stella cometa e indicarci la strada. A quanto pare c’era una quarta porta, quella da cui provenivano loro, ed era quella giusta. Peccato solo che da lì si arrivasse a un canalone strapieno di neve che andava fatto, a loro dire, con la piccozza. Indovinate cosa non avevamo noi?
Arrivati al canalone, in effetti, la situazione richiedeva un po’ di inventiva. Avevamo però con noi il famoso cordone da 70 metri che più di una volta ci eravamo portati appresso per allestire una discesa in corda doppia e una serie di attrezzatura come secchiello, piastrina, dadi, kevlar e imbrago con cui, in relativamente poco tempo, abbiamo allestito una sosta più o meno sicura. L’adrenalina ha cominciato a scorrere a frotte nel Signor Coso. Con una lucidità e una calma sorprendente ha fatto da sicura prima all’Amico Esperto e poi a me per farci attraversare il canalone sulle tracce lasciate dai re magi. A quel punto toccava a lui. Affidandosi alla nuova sosta realizzata dall’altra parte dall’Amico Esperto ha affrontato la neve. Cassandra era quieta: non preannunciava morte. Al primo passo il piede gli è scivolato. Non esattamente un buon modo per cominciare, ma Cassandra forse dormiva o era in coma o che so io perché non si è spaventata e il secondo passo è stato più fermo del primo e così via. E il Signor Coso procedeva anche con una certa eleganza, chiedendo corda con calma come se stesse chiedendo permesso in metro. Non come me che, un attimo prima nella stessa situazione, gracchiavo come una pazza “CORDA! CORDA! CORDAAA!”.
A questo punto mi piacerebbe dirvi che da qui in poi, senza ulteriore fatica o imprevisti, siamo arrivati in vetta, ma la realtà è che ci siamo di nuovo persi. O almeno lo supponiamo visto che in poco tempo ci siamo ritrovati nell’ennesimo canale sdrucciolevole senza più traccia di sentieri o segnavia. È qui che, mi vergogno ad ammetterlo, ho avuto un totale crollo mentale e, ridotta a procedere praticamente a carponi, ho completamente perso il senno e mi sono testardamente seduta sull’ennesima roccia friabile e ho sentenziato che volevo il soccorso alpino. In quel momento l’Amico Esperto era troppo avanti per accorgersene e vicino a me c’era solo il Signor Coso che era più incline a spronarmi ad andare avanti che ad accondiscendere ai miei capricci. Io non sapevo che numero si dovesse chiamare per avvertire il soccorso alpino (è vergognoso! Non fate come me!) e non sapevo neanche dove mi trovassi (in quel momento non mi era neanche chiaro che quelle verso cui procedevamo si chiamassero Torri di Casanova), quindi senza l’alleanza di uno dei miei due compagni non avevo speranza di farmi soccorrere e, d’altro canto, anche il ritorno era ormai fuori questione superato il malefico canalone.
Così alla fine sono andata avanti mentre il Signor Coso, preoccupato e un po’ confuso, si interrogava mentalmente se fosse il caso di parlare o tacere, correre avanti verso l’Amico Esperto o restare indietro con me. Tanti quesiti, lo devo ammettere, su cui è meglio non soffermarsi quando, come noi, ti ritrovi a circumnavigare una roccia sporgente sopra un canalone abbracciando con sommo amore tutti gli speroni a disposizione. Quesiti, d’altro canto, che non hanno una buona risposta neppure in città, al livello del mare, figurarsi in montagna a 2000 metri di altezza.
Dopo il panico da circumnavigazione di roccia, comunque, abbiamo raggiunto in poco tempo la cresta dove ci siamo ricongiunti con la Via del Centenario. Qui, con suo sommo sgomento, Cassandra ha dovuto constatare che si era sbagliata: niente ferrata laggiù, ma solo altri tratti rocciosi, quasi dolomitici, di II grado con vecchi chiodi dismessi infilati nella roccia. In poco tempo, però, abbiamo raggiunto a sinistra quella che io ho creduto essere la vetta di una delle torri dove tre romani come noi se ne stavano comodamente spaparanzati a bersi un Ichnusa. Per essere onesti, in realtà, abbiamo raggiunto la sella sotto la vetta, ma questo lo abbiamo scoperto solo il giorno dopo, per la “felicità” del Signor Coso e dell’Amico Esperto (io mi sono accontentata di essere tornata a casa intera, vetta o non vetta). Che poi non ho neanche capito se quella sotto cui siamo passati ignorandola bellamente sia la torre più alta, ossia la vetta di 2362m, ma non devastateci ulteriormente: diciamo che lo era.
Il ritorno dalle Torri di Casanova per la via Familiari
I tre romani erano stati più furbi di noi: erano saliti dalla via di salita e sarebbero anche ridiscesi da lì. Il che gli permetteva di assicurarci che il peggio era passato e che la via Familiari, che finalmente avremmo intrapreso, era decisamente alla portata di tutti. Cassandra ormai, però, era malfidata: non gli credette. Ve lo dico subito: non mentivano, avevano ragione loro.
La via ferrata Gianni Familiari (2276 m circa) è poco distante dalla vetta e fin dal primo poderoso tratto verticale si mostra subito maltenuta. Il primo tratto non presenta un cavo di acciaio, ma una corda alpinistica. Nonostante faccia effetto vederlo dal basso non è certo questo primo tratto a costituire il problema di questa breve, brevissima ferrata. Anzi, dopo essersi issati lungo la fune ed essersi arrotati fino a ridiscendere per la successiva scaletta si può godere di una fessura naturale nella roccia dove il vento si incanala a tal punto da diventare suono, un suono tipo flauto stonato intento a suonare, come tutti i flautisti alle prime armi, Viva viva l’olio d’oliva.
È il secondo tratto della ferrata Familiari che si rivela più ostica. La verticalità rimane elevata e la discesa si fa difficile, al punto che il Signor Coso non riusciva più a turnicare e developparsi. Stava lì come un pesce lesso a cercare un modo per inforcare la scaletta. E provatevelo a immaginare un pesce a 2000 metri, senza acqua e senza gambe (in fondo è un pesce…) che cerca di inforcare una scaletta: non riesce molto bene.
Superate le difficoltà del pesce lesso e la mia sensazione di vuoto e terminata la ferrata si procede per un sentiero in quota fino a raggiungere la Forchetta di Santa Colomba (2250 m circa). Qui si abbandona il Sentiero del Centenario e si inizia finalmente a scendere prima nell’ennesimo canale ghiaioso ripido e scosceso e poi, a quota 2050m circa, in un largo dosso erboso dove, dopo un paio di ore di discesa abbiamo imboccato un sentiero segnato, che poi sarebbe il sentiero n.230, fino ad arrivare alla macchina sfiniti, tesi, ma entusiasti (tutti a parte me) per l’avventura appena vissuta.
Un ultimo appunto su questo trekking nel Gruppo del Gran Sasso inaspettatamente più complicato di qualsiasi cosa avessimo fatto fino a quel momento e inquietantemente più caldo di quanto il meteo avesse promesso: Cassandra aveva ragione fin dall’inizio. Ebbene sì, saremmo dovuti andare a sinistra nel Piano di Pietranzoni e imboccare fin dall’inizio questo sentiero segnato che poi, a conti fatti, c’era e solo noi non notavamo, ma a quel punto poi che avremmo fatto? Saremmo riscesi dalla via CAI Penne? Non c’è niente da fare, Cassandra: porti sfiga in ogni caso!
Scheda dell’escursione:
Partenza: Piano di Pietranzoni (a piedi)
Arrivo: Piano di Pietranzoni (a piedi)
Difficoltà: II grado (Via CAI Penne), EEA (Via Familiari)
Durata: 8 ore e mezzo circa
Dislivello: 850m
Sentieri: 230, 230A
Le fotografie sono mie e del Signor Coso
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